Quando la bellezza diventa resistenza

C’è chi, sotto le bombe, non scappa ma dipinge. Chi fotografa, chi scrive, chi scolpisce il dolore per dargli forma.
In ogni guerra, l’arte diventa una lingua parallela, un atto di sopravvivenza. Succede oggi in Ucraina, dove collettivi di artisti hanno trasformato le macerie di Mariupol e Kharkiv in tele di denuncia.
Succede a Gaza, dove giovani pittori dipingono sulle rovine come per affermare che l’identità non si cancella con le ruspe.
E succede in Iran e Afghanistan, dove le artiste donne continuano a creare clandestinamente, nonostante i divieti, per rivendicare la libertà di essere viste da tutto il mondo.

Nei conflitti contemporanei, oltre alle persone, si distruggono musei, biblioteche, archivi. È la cosiddetta “guerra culturale”, quella che punta a cancellare la memoria di un popolo.
È accaduto a Palmira, dove l’Isis ha fatto saltare in aria secoli di storia, e accade ancora una volta oggi nei musei danneggiati di Odessa o nei siti archeologici iracheni.
Dietro ogni crollo c’è sempre la perdita di un’identità collettiva.
Eppure, in silenzio, perché non lo racconta nessuno, c’è chi ricostruisce: restauratori, curatori e volontari che mettono a rischio la propria vita per salvare quadri, sculture, manoscritti. La loro è una forma di resistenza invisibile ma potente.

Nell’era dei social, anche la denuncia passa attraverso l’arte.

Fonte: F.Z.

Banksy è tornato nei territori di guerra per lasciare i suoi stencil tra le rovine ucraine. La fotografa Yevgenia Belorusets documenta la quotidianità del conflitto, mostrando che la vita continua anche tra i bombardamenti.
Sono immagini che costringono a guardare, a rendersi conto di cos’altro si nasconde dietro una bomba, un crollo…
L’arte, in questi contesti è il tentativo di rimettere ordine nel caos, per evitare che la violenza diventi normalità. L’arte, nei momenti più oscuri, è un atto di sopravvivenza e, in ogni caso, resta uno strumento di ricostruzione morale.
In Bosnia, nei Balcani, in Ruanda, mostre e laboratori collettivi hanno permesso a intere comunità di elaborare il trauma attraverso la creazione.
Oggi progetti simili nascono anche in Ucraina: scuole d’arte per bambini sfollati, laboratori di mosaico con i resti dei vetri esplosi.
È la dimostrazione che la bellezza, quando resiste al dolore, può trasformarsi in terapia sociale. In tempi di guerra, l’arte impedisce che ci si abitui alla guerra. Rende visibile ciò che la propaganda vuole nascondere, restituisce umanità ai volti senza nome. Ci ricorda che ogni quadro salvato, ogni poesia scritta in un rifugio, ogni muro dipinto tra le macerie è una dichiarazione di esistenza.
Come scrisse Picasso durante l’occupazione nazista, davanti a Guernica: “Non sono io ad aver fatto la guerra. Sono loro.”

Oggi, come allora, l’arte continua a rispondere con la stessa ostinata potenza. Dopo ogni guerra, l’arte è ciò che resta comunque, è ciò che permette di ricominciare. Le mostre dedicate alla ricostruzione, i musei della storia e i progetti di arte partecipativa nei territori distrutti hanno una funzione terapeutica: trasformare la ferita in racconto.
Un racconto che è la lingua comune dell’umanità, che ha sempre saputo superare frontiere e silenzi, per tornare a vivere nell’ultima, fragile forma di libertà rimasta: quella che si affida alle mani dell’uomo che stringono finalmente le armi più docili come lo scalpello, il martello, un pennello e gli infiniti colori della sua lunga e tormentata memoria. Ogni immagine, ogni parola dedicate a tutti, senza distinzione e senza tempo…

Francesco Zero