Il dolore unito alla voglia di vivere, all’allegria data dal sole e dal mare: sono questi gli elementi propri della canzone napoletana
Sabato 7 settembre, presso il Teatro Ar.Ma in via Ruggero di Lauria 22, ho avuto l’onore di presentare l’ultimo libro (“per il momento” come detto da lui stesso) di Fulvio Caporale “Appunti, ricordi e personali considerazioni sulla Canzone Napoletana” pubblicato a cura delle Edizioni del Museo di Arte Contemporanea di Campagnano di Roma.
Il volume è stato introdotto da Lorenzo Lisi che ha presentato, con l’autore, le due relatrici: Angela Caporale e la sottoscritta Maria Banaudi. È stata prima la volta di Angela Caporale, figlia dell’autore nonché musicologa e professoressa di musica.
Fonte: Foto di repertorio
Nel suo intervento, molto articolato e dettagliato, Angela ha messo in risalto il suo “sentire” nei confronti di questo libro: combattuta tra due approcci, “quello specificatamente tecnico di lettrice e divoratrice di tutti i libri di Fulvio Caporale e quello legato alla relazione filiale che comporta anche numerose influenze affettive e sentimentali” facendole comunque collegare tutti i contenuti espressi nel testo con la sua vita e con le sue vicende biografiche.
Dopo l’intervento di Angela Caporale è stato chiesto a me di fare una relazione sul volume. Io più che una esperta sono una Fruitrice della Canzone Napoletana fin da quando da bambina imparavo a cantare con mio papà che cantava e suonava la chitarra. Leggendo il libro di Fulvio Caporale ho scoperto delle vere e proprie chicche, come il fenomeno della “parlesia”. Si tratta della pratica usata da molti autori di canzoni che usavano un linguaggio cifrato per esprimersi e capirsi nei confronti delle persone che avevano davanti. Un’altra chicca era stata citata da Angela nel suo intervento e riguarda la leggenda mitologica della nascita della città da un momento di dolore, dal canto delle sirene abbandonate che non sono riuscite a tenere Ulisse con loro o dalla morte della Principessa della Tessaglia Partenope, che darà poi il nome alla città stessa, che muore dopo un lungo viaggio appena arrivata sulle sponde del Golfo di Napoli.
Fonte: Foto di repertorio
Questi sono gli elementi propri della canzone napoletana: il dolore unito alla voglia di vivere, all’allegria data dal sole e dal mare. Un esempio su tutti è la canzone ‘Simme e’ Napule paisà’. Dopo il bombardamento della città di Napoli durante la Seconda Guerra Mondiale e conseguenti strade distrutte e tram che non potevano andare in giro, una coppia di innamorati decide comunque di andare in giro per la città stretti stretti a bordo di una carrozza. La carrozzella è guidata da un cocchiere e passa vicino a quella che era la sua casa distrutta dai bombardamenti. Il cocchiere piange per la sua perdita (“son rimasto surtant’io” come dice la canzone), ma nonostante tutto si volta e va avanti, perché questo è il vero spirito dei napoletani. Alla fin fine vivere sotto quel vulcano ha fatto sì che nel tempo e nelle canzoni vengano unite la gioia, la paura e la sfrontatezza di vivere.
È stato un onore e un piacere immenso per me poter presentare questo volume che mi ha aperto un mondo. Grazie Fulvio per il regalo che mi hai fatto!
Maria Banaudi