Lasciamo, dunque, che certi “cult” restino icone intoccabili nella storia della cinematografia mondiale, senza andare a scomodare storie e personaggi divenuti immortali ed unici nel loro genere

Mi capita di vedere raramente la televisione, per mancanza di tempo da un lato e per assenza di contenuti dall’altro. Per spirito giornalistico (oltre che per passione cinematografica) quando viene dato l’annuncio di un film che suscita curiosità, non esito a posizionarmi davanti al piccolo schermo o al grande telo bianco di un cinema per assistere alla messa in onda o alla proiezione della pellicola.

Qualche tempo fa, durante le festività natalizie, Rai1 ha trasmesso “Il ritorno di Mary Poppins”, continuazione della celeberrima pellicola datata 1964 con due meravigliosi interpreti quali Julie Andrews (Mary Poppins) e Dick Van Dyke (Bert/Banchiere Dawes senior).

Inutile dire che in tutti noi quelle musiche che accompagnavano la storia della famiglia Banks e della fenomenale Tata, sono rimaste nella testa e nel cuore. Ancora oggi, alle prime note di uno di quei brani, sappiamo subito capire di quale pellicola si sta parlando.

Ebbene, nel 2018, la Disney ha pensato di proseguire oltre quel lieto fine del ’64 e portare gli spettatori a vedere i due figli del bancario e della suffragetta cresciuti e ancora uniti. Lui, Michael Banks, vedovo e padre di tre figli; lei, Jane Banks attaccata ai ricordi di famiglia e al fratello con cui condivide il medesimo tetto. Attorno a questi due personaggi, troviamo una Ellen (che nel primo film era la governante dai capelli rossi), ormai avanti con gli anni, l’Ammiraglio Boom (già anziano nella prima pellicola che viene riproposto in maniera un po’ forzata) e Jack, un giovane spazzacamino che, parlando della propria infanzia, ricorda quando faceva “l’apprendista” accanto a Bert, ora in giro per il mondo.

E poi abbiamo lei, Mary Poppins, interpretata dall’attrice Emily Blunt e Dick Van Dike nel ruolo del figlio del banchiere Dawes senior (truccato nella stessa identica maniera di quando interpretava il padre).

Il confronto è stato inevitabile: inutile dire che la pellicola del 1964 ha, a mio modestissimo parere, stravinto su questa del 2018. Anche le musiche dell’epoca hanno dimostrato di non avere rivali di sorta.

Attori molto bravi ma che trovandosi a sfidare un “mostro sacro” non hanno retto il confronto (tranne Van Dike che è stato l’unico anello di congiunzione fra il prima e il dopo).

Ritengo che la scelta di un sequel a distanza di tanti (forse troppi) anni sia sempre un grosso rischio per attori, registi e produttori. In questo caso, tentare di eguagliare quanto messo davanti alla macchina da presa quasi sessant’anni fa, non ha portato ai risultati sperati. E già dalle prime scene si percepiva un tono inferiore che mi è stato confermato da un sonno giunto durante metà pellicola che sono riuscito a contrastare con estrema fatica.

Lasciamo, dunque, che certi “cult” restino icone intoccabili nella storia della cinematografia mondiale, senza andare a scomodare storie e personaggi divenuti immortali ed unici nel loro genere.

Stefano Boeris

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