Analizziamo a distanza di molti mesi le vere ragioni di quegli enormi aumenti che abbiamo sperimentato

Parlando del calo bellette degli scorsi mesi e contestualizzando fin dall’inizio la portata del fenomeno, in tempi “normali” il costo di un MWh sul mercato dell’energia (dei distributori, non retail) oscilla fra i 30 e i 50 €/MWh, al contrario, nei mesi scorsi, si erano toccati apici di 350 €/MWh. I governi di tutta Europa hanno cercato di porre rimedio a questi incrementi, garantendo sostegni più o meno ingenti a imprese e cittadini. Ad ogni modo appare interessante approfondire i motivi e le origini alla base di queste circostanze, focalizzandosi sul caso italiano.

Innanzitutto, è bene specificare le fonti attraverso cui viene soddisfatto il fabbisogno energetico del Bel Paese: il 34% proviene da fonti rinnovabili (dall’idroelettrico al fotovoltaico), il 53% dal termoelettrico (che include gas naturale per il 33%) e, infine, il restante 13% proviene da importazioni, di cui una buona parte di origine francese (ebbene sì, legata al nucleare).

Analizzando criticamente la suddivisione delle suddette quote energetiche, si ricava che l’Italia fonda ben un terzo della produzione nazionale di energia sul gas naturale, identificando il principale fattore scatenante dell’incremento degli scorsi mesi.

Nel corso del secondo semestre del 2021, infatti, la quantità di gas esportata dalla Russia verso l’Europa è diminuita, tanto che gli stoccaggi nell’Ue hanno raggiunto il livello stagionale più basso da oltre un decennio, oltretutto in coincidenza con una maggiore domanda di energia trainata dalla ripresa economica. Ed ecco profilarsi una delle più classiche leggi economiche: aumento della domanda + diminuzione dell’offerta = aumento dei prezzi.

Fonte: Roma

A ciò si aggiungono le questioni geopolitiche, tristemente note, le quali hanno ulteriormente aggravato il problema; occorre sottolineare, a tal proposito, che i rifornimenti di gas russo giungono in Europa attraverso vari gasdotti, sostanzialmente riassumibili in due categorie: quelli che passano attraverso l’Est Europa, Ucraina inclusa, e il Nord Stream 1, gasdotto sottomarino il quale, attraversando il Mar Baltico, collega direttamente Germania e Russia. Quest’ultimo è stato affiancato da un suo gemello più giovane, il Nord Stream 2, il cui percorso ricalca approssimativamente l’itinerario del suo antenato, per lo meno prima che venisse misteriosamente danneggiato non si bene da quale delle due forze in campo nell’infausta guerra che ci troviamo a testimoniare da quasi un anno e mezzo.

Nello specifico, i gasdotti che attraversano l’Ucraina consentirebbero di trasportare circa il l’80-90% degli approvvigionamenti che, sommando gli altri che si snodano tra Bielorussia e Turchia, verrebbero soddisfatti senza l’utilizzo dei Nord Streams.

Cionondimeno, la Germania aveva scelto di perseguire investimenti nell’ordine di alcuni miliardi di euro per la loro costruzione, al fine di tutelarsi da eventuali interruzioni di forniture transitanti attraverso la disputata Ucraina, nonostante l’avversità di Washington che, tradizionalmente, non vede di buon occhio rapporti di cooperazione tra Russia ed Europa, per di più in una delle sue protagoniste chiave.

Una situazione delicata e complessa, perciò, come districarsi in un simile dedalo? Nell’epoca della transizione ecologica e della sostenibilità, concetti che, ahinoi, sono ormai divenuti emblema della vacuità con cui fondamentali temi scientifici vengono affrontati, la soluzione suggerita riconduce sempre e solo all’implementazione massiccia e ad ogni costo delle rinnovabili.

Sebbene esse rappresentino una carta da giocare importante, costituiscono soltanto un paio degli otto carichi della briscola, non tutto il mazzo, come, invece, talvolta si sente dire, presentandoli come panacea di ogni male. Tralasciando l’aspetto delle materie prime necessarie alla costruzione di pannelli fotovoltaici, peraltro non indifferente, è possibile riconoscere due problematiche comuni alle fonti rinnovabili più comuni, dal solare all’eolico, passando per fotovoltaico: la variabilità e la differenza tra potenza installata ed energia prodotta.

Cominciando dalla prima caratteristica, è evidente come la produzione di energia in questi casi sia strettamente dipendente dalle condizioni meteo, incontrollabili e non prevedibili sul lungo periodo. Ad esempio, basti pensare che negli ultimi due anni c’è stato un crollo di vento in Italia, determinando una diminuzione in doppia cifra percentuale dell’energia proveniente dall’eolico.

Fonte: Teknoring

Come non citare, in aggiunta, la siccità peculiare degli ultimi mesi che ha condotto a una preoccupante secca del Po; qualora un simile scenario interessasse zone in cui sono concentrate i bacini idroelettrici, chiaramente si verificherebbe una minore produzione di energia, a fronte, invece, di una domanda stabile.

Inoltre, la differenza principale tra un impianto a combustibile fossile, ad esempio il carbone, e un campo di pannelli fotovoltaici è la seguente: pur essendo definiti dalla stessa Potenza, l’impianto a carbone lavora 24/7, mentre il secondo sarà attivo soltanto durante le ore diurne, con picchi durante le soleggiate giornate estive. Per semplicità consideriamo che quest’ultimo operi 12 ore al giorno, al cospetto delle 24 ore di attività del combustibile. Avendo la stessa potenza installata, per raggiungere la stessa energia prodotta, sarà necessario il doppio dei giorni.

Pertanto, con lo scopo di ottenere la stessa energia nello stesso tempo sarebbe necessario raddoppiare la potenza installata, ossia tappezzare di pannelli la maggioranza delle superfici disponibili, edificate e non.

In conclusione, pensare di soddisfare la prevalenza del fabbisogno energetico attraverso fonti rinnovabili risulta utopistico sul breve-medio periodo, anche in virtù del fatto che l’implementazione di eventuali tecnologie di accumulo per sopperire alla sopramenzionata variabilità, comporterebbero cambiamenti nella linea di distribuzione per i quali sarebbero necessari anni.

Alberto Fioretti

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