Le cause e le ragioni della crisi della sinistra in Italia e nel mondo
Al termine di una campagna per le politiche lunga e difficile, per il Partito Democratico è giunto ormai il tempo delle scelte. Il prossimo congresso del 26 febbraio, infatti, segnerà una data storica per il riformismo italiano, rappresentando per esso un momento inevitabilmente dirimente.
I progressisti avranno solo questa possibilità per decidere se perseverare nella strategia che li sta portando verso un inesorabile declino oppure se inaugurare un nuovo corso, andando senza paura incontro al futuro. Invero, la campagna per la segreteria è in corso già da mesi, ma è ufficialmente partita solo ieri.
In apertura dei lavori, si è assistito al varo del nuovo regolamento congressuale e del relativo manifesto dei valori. Nel presentarlo in direzione, il segretario uscente, Enrico Letta, ha chiaramente detto che esso deve rappresentare la pietra angolare su cui dovrà costruirsi il nuovo PD.
Secondo Letta, all’Italia non serve un altro partito né tornare a vecchie formule, ma un partito diverso, capace di ricompattarsi e di attuare il cambiamento voluto dalla società. La direzione è stata anche un’occasione per presentare i quattro candidati alla guida del partito (Bonaccini, Schlein, De Micheli e Cuperlo) e a cui il segretario ha rivolto l’invito a dialogare fra loro per il bene di tutta la comunità democratica. Un dialogo che, troppo spesso, è mancato nel partito, a discapito dell’inclusione e dell’unità d’intenti.
A prescindere dai buoni propositi, la diatriba fra le sue varie anime sta appannando anche queste primarie, restituendo l’immagine di un partito litigioso e ostaggio di discussioni lunari. Tale crisi, prima di essere politica, è antropologica e, a ben vedere, investe tutta la sinistra europea.
Il “Qatargate” ha, infatti, svelato un sistema di potere che segnatamente vediamo all’opera anche in Italia. Esso, al pari di “Mani Pulite”, ha fornito il pretesto per dichiarare perenta l’età dell’innocenza del progressismo multiculturale. Nondimeno, questo fatto ha messo in dubbio la genuinità di suddetta visione della società. Agli occhi dell’opinione pubblica è, infatti, sempre più evidente la frattura fra la sinistra e il popolo. Da anni, ormai, i suoi esponenti non si recano più nelle fabbriche a parlare con gli operai di lavoro e di diritti.
Al contrario, essi sono maggiormente schiavi di una concezione nichilista del mondo, che li porta a sfiorare il paradosso e sposare cause perdenti. Innanzi a uno spaventoso dilagare della disoccupazione giovanile e della precarietà, come si fa a parlare solo di ius soli e di voto agli immigrati? Con la crisi che migliaia di famiglie vivono, che sta trasformando il nostro Paese in una terra di anziani, ha senso parlare prevalentemente di diritti LGBTQ? O, ancora, a fronte dell’aumento della povertà, ha qualche fondamento retribuire con l’aumento delle tasse l’assenza della giustizia sociale?
Nel dibattito infinito, che attraversa le discussioni interne al PD, non si è ancora giunti a una risposta univoca a tali quesiti. Continuano, invece, a replicarsi le lotte fra le correnti, che trovano il loro comune denominatore nella conservazione e nel mantenimento del potere.
Ad oggi, questo è il principale motivo che sta portando il partito, erede della grande tradizione ulivista, all’estinzione. Come ha ricordato ieri Enrico Letta, quando il Partito Democratico è nato nel 2007, la speranza di tutti era quella di edificare un partito plurale, in grado cioè di fare la differenza nel complesso e multiforme panorama politico italiano. Un obiettivo che è stato largamente disatteso e che rende bene l’idea di quanto il PD rischi di rimanere “un’amalgama riuscita male”. Pertanto, sarà dovere del nuovo segretario eliminare ogni ambiguità sui valori e sui programmi.
Se vuole sopravvivere all’abbraccio mortale con il M5S, il “Partito del Nazareno” deve tornare, senza scadere nel politicamente corretto, a parlare il linguaggio della gente comune. E deve farlo, astenendosi da qualsivoglia pretesa superiorità morale o culturale.
Lo snobismo, oltre che indecente, è antitetico al dna della sinistra. Enrico Berlinguer, padre della “Questione Morale”, lo disse chiaramente, descrivendo l’etica pubblica come un preciso obbligo di dire la verità agli elettori. Un rispetto che dovrebbe essere imperativo in ogni democrazia, ma che è sempre più latitante all’interno della “ditta”, a causa della cecità di certi suoi dirigenti. Per essi, infatti, immemori delle lezioni di chi li ha preceduti, il popolo è niente più che una cifra elettorale, una mandria di buoi da condurre alle urne al momento del voto.
Da qui la disaffezione delle masse verso la politica, osservata con rassegnazione e distacco da quell’esercito di delusi, ormai scettici sulla possibilità che l’immaginazione possa giungere un giorno al potere.
Gianmarco Pucci