Il film si muove agilmente rivelando i limiti della famiglia e delle relazioni umane che ne derivano

Sarebbe improprio e superficiale etichettare Anatomia di una caduta il nuovo film di Justine Triet, come un giallo.  La storia è presto fatta, Sandra, Samuel e loro figlio Daniel, un bambino ipovedente di undici anni, vivono in una baita isolata non lontano da Grenoble. 

Una mattina Daniel torna da una passeggiata con il cane e davanti all’entrata della casa trova il cadavere del padre in una pozza di sangue. A prima vista l’uomo sembra caduto da una finestra della casa. Le indagini partono subito con l’intento di scoprire se si tratta di un incidente, di un suicidio o addirittura di un omicidio. In casa con l’uomo c’era solo la moglie e ovviamente, se si dovesse trattare di un delitto, l’unica sospettata non potrebbe che essere lei. Qualche giorno dopo, anche in base al referto dell’autopsia e alle analisi fatte dai tecnici della polizia, Sandra viene rinviata a processo per omicidio.

Fin qui i tratti classici del giallo, un cadavere con ferite sul corpo che possono confondersi con segni provocati dalla caduta o da colpi subiti prima del fatto, una moglie ambigua che dà notizie frammentarie sugli attimi appena precedenti l’accaduto e soprattutto le versioni controverse che il bambino fornisce agli inquirenti, parole che lasciano spazio a credere che egli conosca la verità, ma la nasconda per proteggere la madre. Si arriva così al processo.

Fonte: MYmovies

Man mano che vengono ascoltate le testimonianze la situazione si fa sempre più ingarbugliata, ma soprattutto emerge una strana contraddizione nel rapporto tra Sandra e il marito, due persone legate da un amore forse intenso, ma spesso conflittuale. Entrambi sono scrittori, ma mentre lei svolge il suo lavoro con successo, il marito è fermo da anni sullo stesso romanzo. La rivalità che ne scaturisce mette in evidenza che il loro matrimonio non è sempre tutto rose e fiori e che anche il rapporto con il figlio è spesso fonte di tensioni.

Il pubblico ministero si attacca a questo presupposto per porre le basi di un possibile movente. Come dicevo, ogni tassello sembra costruito con la logica del giallo ma, a mano a mano che i fotogrammi si susseguono, si ha la percezione che la regista abbia per la testa altro, e che il meccanismo della morte sospetta dell’uomo sia solo un espediente per narrare qualcosa di diverso. D’accordo, il rapporto tra Sandra e Samuel attraversava una crisi profonda e questo lentamente prende forma, litigi, incomprensioni, gelosie, ma Daniel?

Il figlio fragile, ipovedente, in equilibrio tra genitori insicuri e insoddisfatti della propria vita e la solitudine di una infanzia passata in una baita isolata dal mondo? Ecco, il punto della questione non è solo un matrimonio in crisi, ma la vita di Daniel, un bambino che, mentre il processo procede, e lui è presente alle udienze, ci accorgiamo essere cresciuto troppo in fretta, costretto ad affinare la propria sopravvivenza non solo per la mancanza della vista, ma anche e soprattutto per il rapporto faticoso che ha con i genitori.

Fonte: Internazionale

Il film, che piano piano sembra quasi dimenticare il possibile delitto, si muove agilmente, rivelando, immagine dopo immagine, i limiti della famiglia e delle relazioni umane che ne derivano, arrivando a mettere a nudo le contraddizioni non solo della relazione tra Sandra, Samuel e Daniel, ma anche dell’intero sistema che regola la vita coniugale.

In questo senso la sceneggiatura si muove come una macchina perfetta, lasciando lo spettatore attaccato ai dialoghi serrati del processo e ai lunghi monologhi di Sandra, interpretata da una straordinaria Sandra Hüller. Come in tutti i gialli che si rispettano ci sarà un coup de théatre, anche questo però in linea perfetta con il senso che la regista ha voluto dare a questa pellicola che, non a caso, è stata premiata a con la Palma d’Oro a Cannes.

Lello Mingione

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