Un film che affronta con ironia la condizione della donna all’inizio del secolo scorso, senza cadere negli stereotipi autocommiserativi

Due donne, Littlehampton, un paesino del West Sussex, una società patriarcale e retrograda, del resto siamo nel 1922, e delle lettere anonime. Molte lettere anonime. Ingredienti stimolanti, elementi che quasi potrebbero ricalcare una storia alla Agata Christie, senza tuttavia morti ammazzati e rapine o altre amenità nello stile della grande scrittrice inglese. Sono questi i tratti del delizioso film ‘Cattiverie a domicilio’ della regista britannica Thea Sharrock e scritto da Johnny Sweet.  Edith Swan e Rose Gooding, sono le due donne. Zitella inglese la prima, con genitori in casa, immigrata irlandese single con figlioletta la seconda. Abitano nello stesso caseggiato e inizialmente sono anche amiche. Certo la differenza si vede ad occhio nudo, come si dice, Edith ha un carattere piuttosto chiuso, condizionato anche dal rapporto di sottomissione verso il padre padrone, Rose al contrario è il prototipo della donna libera, priva di qualsivoglia inibizione e, per quei tempi, piuttosto ribelle.

Fonte: Vogue Italia

Tutto viaggia su un binario di comune e pacifica convivenza fin quando Edith non inizia a ricevere lettere anonime piene di insulti e minacce. Non si capisce chi possa essere a volerle tanto male, data la totale piattezza della vita della donna. Non ci sono amanti traditi né tanto meno segreti inconfessabili, anzi Edith è una creatura arrendevole e mite, remissiva verso gli altri al limite della decenza. Eppure, le lettere esistono davvero e sono ogni giorno più numerose e aggressive. Viene coinvolta la polizia e subito i sospetti si concentrano proprio sull’amica Rose, la ribelle Rose.

È facile appioppare a una donna siffatta il marchio del delatore, è sola, è straniera, è priva di mezzi, insomma è una vittima sacrificale perfetta alla quale attaccare un’etichetta che, se al contrario coinvolgesse un abitante storico del paese, metterebbe in imbarazzo l’intera comunità. Ecco, dunque, che la sentenza sembra già emessa e le prove lo confermano con evidenza. Già, le prove. Il fatto è che la dimostrazione alle accuse fatte a Rose, cioè le prove, non esistono e ciò semplicemente perché la ragazza è assolutamente estranea ai fatti che le vengono addebitati.

La pellicola, che fra l’altro si ispira a un fatto di cronaca veramente accaduto, potrebbe a questo punto prendere dei connotati drammatici e invece la regista vira vorticosamente e la trasforma in una divertente commedia che, ma di questo ci accorgeremo solo alla fine, tende soprattutto a ridicolizzare la società maschilista dell’epoca. In qualche modo vittima e carnefice solidarizzano e i fatti, senza per questo dimenticare la legge, si poggiano dolcemente sulla storia dandole un senso ironico e quasi oserei dire, da fiaba.

Fonte: Mymovies

Bravissimi tutti gli interpreti, a partire dal premio Oscar Olivia Colman, una Edith spietata e dolce al contempo, fino a Jessie Buckley la stralunata e ribelle Rose, e ad Anjana Vasan, l’arguta poliziotta Gladys che sarà la chiave della risoluzione del giallo, per concludere con Timothy Spall perfetto nel ruolo del padre di Edith, prototipo del maschio ottuso e autoritario.

Un film intelligente e divertente che affronta con ironia la condizione della donna all’inizio del secolo scorso, senza cadere negli stereotipi autocommiserativi visti fin troppe volte e, a mio avviso, proprio per questo, molto più caustica ed efficace.  

Lello Mingione

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