La principale critica mossa al liberalismo: ignorare i problemi del lavoro e della classe operaia

È passato più di un secolo da quella fredda mattina di gennaio del 1919, allorché la commissione provvisoria del PPI sottoscrisse un appello destinato a cambiare radicalmente la storia dell’Italia contemporanea. Esso, si rivolgeva a tutti gli uomini liberi e forti, invitandoli a cooperare fra loro, a prescindere dalla propria fede religiosa o politica, nel nome del superiore interesse per la giustizia e libertà.

In calce al documento, redatto agli albori del primo Dopoguerra, era apposta la firma di Don Luigi Sturzo, sacerdote siciliano e docente presso la Pontificia Università Gregoriana. L’obiettivo di Don Sturzo fu da subito quello di permettere ai cattolici di avere una rappresentanza politica unitaria, superando definitivamente il non expedit decretato da Pio IX all’indomani della Breccia di Porta Pia. Da acuto testimone della propria epoca, il sacerdote colse l’arrivo dei tempi nuovi, cercando di prevenirne i possibili effetti deflagranti.

Egli, nato in una nobile famiglia calatina, il 26 novembre 1871, entrò giovanissimo in seminario e fu ordinato presbitero a ventidue anni dal vescovo di Caltagirone. Come percorso da un fuoco sacro, Don Luigi intravide nella politica il fine ultimo per realizzare la speranza predicata da Gesù nel Vangelo attraverso la carità. Essendo un cuore inquieto, come direbbe Sant’Agostino, si impegnò attivamente nel sociale prima ancora che nella vita pubblica. Dapprima nell’Opera dei Congressi, che abbandonò polemicamente, ritenendo ormai inconciliabili le idee dei popolari con quelle dei liberali conservatori.

Fonte: RomaSette

La principale critica che lui muoveva al liberalismo era di ignorare i problemi del lavoro e della classe operaia. Di più, nei suoi scritti lamentava il disinteresse del governo centrale per la Questione Meridionale, auspicando un federalismo statutario che sostituisse il capitalismo di Stato voluto da Giovanni Giolitti. Ciò gli attirò anche l’odio dei massoni, che nell’attivismo del presbitero siciliano videro un pericolo per il loro potere nell’isola. Questo non impedì comunque a Don Sturzo di essere eletto nel 1905 consigliere provinciale a Catania e prosindaco di Caltagirone.

Nel corso di questa, egli pronunciò uno dei suoi discorsi più famosi, rilasciando tesi poi riprese nell’Appello ai Liberi e Forti. In ossequio a quanto affermato da Papa Leone XIII nella sua enciclica De Rerum Novarum, Don Sturzo rivendica nell’Appello l’avvento di un ordinamento che favorisca l’armonia fra le classi sociali, garantendo i diritti dei più deboli e rifiutando le idee rivoluzionarie perseguite dal socialismo marxista.

Non a caso, lo storico Gabriele De Rosa definì l’Appello uno dei più importanti documenti redatti dopo l’Unità d’Italia, nel modo in cui esprime una posizione terza e alternativa tanto al marxismo quanto al liberalismo. In esso, Don Sturzo ritiene altresì venute meno le premesse che impedivano ai cattolici di partecipare alla vita politica nazionale. Ne sono una prova alcuni movimenti riformatori, sorti a cavallo del Primo conflitto mondiale, che anticiparono la creazione del Partito Popolare Italiano di qualche anno (come la Democrazia Cristiana di Romolo Murri e la Cil di Achille Grandi e Giovanni Gronchi).

Da qui la nascita del partito unico che, nelle elezioni del 1919, entrò per la prima volta in Parlamento, eleggendo cento deputati, fra cui lo stesso Sturzo, primo parlamentare presbitero della storia d’Italia. Similmente allo Zentrum in Germania, il popolarismo italiano ha avuto il merito di accompagnare, per oltre cinquant’anni, i cambiamenti del Paese, senza stravolgere l’impianto fondamentale della società.

Questo essenzialmente per la sua attitudine a parlare una lingua comprensibile dalle masse, ma aliena da qualsivoglia fervore ideologico o velleitaria nostalgia antimoderna. Una concezione che ritroviamo espressa, da ultimo, nel Codice di Camaldoli del 1943 e che, nel fondare la nuova Democrazia Cristiana, si presenta come erede diretta del pensiero sturziano.

Cionondimeno, di essa troviamo traccia nella Costituzione, nata dalla Resistenza e nella cui stesura i cattolici hanno avuto un ruolo non marginale. Lo dimostra chiaramente l’articolo 1, il cui riferimento al lavoro voluto da Amintore Fanfani, è precipuo corollario di tale visione del mondo e dei suoi problemi.

Ciò è probabilmente il maggiore lascito di quell’esperienza politica, ormai da tempo conclusa, ma che continua a vivere nella nostra quotidianità, attraverso la lettera della legge. In tal senso, non possiamo non dirci tutti debitori della riflessione di Don Luigi Sturzo, rivoluzionario al servizio di Dio e Beato fra quanti hanno visto nel bene comune il compimento della Gerusalemme Celeste.

Gianmarco Pucci

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