Il crac della banca di Silicon Valley riaccende i timori di una nuova recessione globale

Verrebbe da chiedersi, parafrasando Karl Marx, se non ci sia un fantasma che si aggira fra i mercati globali. A giudicare dagli ultimi avvenimenti, sembrerebbe proprio di si, a cagione di quanto la storia sia a volte assai ripetitiva. Come se non bastasse la guerra, adesso a destabilizzare l’economia mondiale ci pensa anche l’ennesimo fallimento di una banca americana.

A quasi quindici anni da quello di Lehman Brothers, il crac di Silicon Valley Bank giunge, come un fulmine a ciel sereno, a seminare il panico fra imprese e risparmiatori, resuscitando paure mai realmente scomparse. Per le piazze europee, quella di lunedì scorso, è stata senza ombra di dubbio la giornata più lunga dai tempi di ottobre 2008. Solo Piazza Affari ha bruciato nella giornata oltre 24 miliardi di euro e ha registrato perdite di circa il 4% sui principali indici azionari. Sulla stessa linea Francoforte (-3,04%), Parigi (-2,9%) e Londra (-2,58%).

Molto meglio è, invece, andata la seduta a Wall Street, dove la decisione della Fed di mettere sotto controllo la banca californiana, ha permesso alla borsa newyorkese di recuperare il calo della mattina.

Il pericolo era, non per niente, che si verificasse una corsa impazzita a ritirare i depositi, specie dopo la chiusura di un altro istituto a New York. Un rischio avvertito anche in Europa, ma che attualmente appare remoto, grazie al tempestivo intervento delle autorità statunitensi per evitare il contagio interbancario. A tal proposito, considerando l’elevato numero di banche regionali presenti negli Stati Uniti, il Presidente Joe Biden è intervenuto a rassicurare la nazione, garantendo che i depositi persi dai correntisti saranno risarciti dal governo federale al 100%.

Fonte: Beverfood.com

Il Presidente ha anche chiesto al Congresso di varare una legge per rafforzare la vigilanza sugli istituti di credito, proprio per evitare il ripetersi di tali spiacevoli episodi. Per fugare ogni dubbio riguardo a una presunta cattiva gestione da parte dei vertici della banca, è attesa finanche una relazione della Federal Reserve, che verrà resa pubblica il prossimo 1° maggio. Che ci sia del marcio in California? A giudicare dai primi indizi ogni sospetto è più che legittimo. Peraltro, solo un mese fa, la banca era in cima alla classifica di Forbes fra gli istituti più affidabili negli Stati Uniti e nulla faceva pensare a un suo imminente tracollo in borsa. Secondo gli analisti, la principale caratteristica di tali fenomeni di dissesto è data dall’imprevedibilità con cui si verificano.

Tuttavia, a differenza della crisi del 2008, originatasi da una bolla del mercato immobiliare, qui a fare la differenza è stato l’impiego frequente nel settore dell’hi-tech di capitali altamente speculativi (venture capital). Tali fondi, permettendo di avere subito a disposizione ingenti capitali da reinvestire nel mercato, rendono bene quando i tassi d’interesse sono molto bassi e registrano perdite quando il costo del denaro sale. Niente di più facile, dunque, che la Silicon Bank, specializzata in prestiti a breve termine a startup tecnologiche, abbia cercato, a causa dell’aumento dei tassi d’interesse sui titoli di stato Usa, di recuperare liquidità, rivendendo in borsa le proprie azioni a un prezzo più basso di quello d’acquisto. Ciò ha provocato una perdita in borsa di quasi 2 miliardi di dollari e ha scatenato il panico fra i correntisti, corsi immediatamente a ritirare i depositi per spostarli altrove. Ma c’è, ovviamente, dell’altro.

Il fallimento della principale banca d’investimento nel settore tecnologico non nasce per caso. Con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, alcuni servizi e strumenti digitali, forniti dalle startup durante la Pandemia, sono diventati più cari e gli investimenti sono scesi. Il crollo di titoli tecnologici in borsa ha indotto numerose compagnie a licenziare i propri dipendenti, con effetti anche sui colossi del web.

Solo a novembre Zuckerberg, fondatore di Meta e Facebook, ha dovuto fare a meno di circa il 13% della propria forza lavoro. Idem hanno fatto Stripe (14%), Amazon (11%), e Twitter (50%). Quest’ultimo, come è noto, è stato da poco acquistato dal miliardario sudafricano Elon Musk. Musk, che attualmente è il secondo uomo più ricco al mondo, è sempre più un personaggio controverso. A novembre ha liquidato, dalla sera alla mattina, la metà dei suoi dipendenti con una semplice mail.

Il suo stile di vita eccessivo, che lo rendono un magnate visionario, non manca di stupire, ma anche di suscitare timori. Specialmente per la crescente influenza che esso potrebbe avere sulle decisioni del governo statunitense nel prossimo futuro.

Un fatto che renderebbe il male peggiore della cura, qualora si decidesse di affidargli il compito di rimuovere le distorsioni di un mercato inevitabilmente imperfetto e instabile.

Gianmarco Pucci

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