Cosa pensare delle discussioni sull’introduzione del reddito minimo di questi ultimi anni?

È molto frequente nell’ultimo periodo trovare post in cui un giovane (con titoli di studio o meno) denunci di aver cercato lavoro e di aver trovato solamente offerte che prevedevano stipendi mediocri e poche opportunità di crescita personale a fronte di molte ore lavorative.

L’anno scorso Pasquale Tridico, presidente di Inps, ha riproposto l’adozione di un salario minimo, di cui potrebbero beneficiare gruppi di lavoratori ancora non tutelati e che è già presente in economie come quelle di Francia e Germania. Ricevere una dignitosa retribuzione economica per la propria attività è un indiscutibile diritto di ogni cittadino, ma in Italia il problema legato al mondo del lavoro è un altro: il tasso di occupazione.

Un istituto come il salario minimo, stabilito ad esempio con una misura di 9 euro all’ora (come proposto dai 5 stelle), porterebbe a un gioco di trade-off, ossia effetti che una scelta a favore di una variabile economica potrebbe avere sulle altre. Se infatti da un lato può migliorare la condizione di lavoratori con redditi più bassi, con conseguente aumento del gettito e redistribuzione della ricchezza, agire soprattutto sui lavoratori più giovani e avere impatto sul gender gap, d’altra parte la norma potrebbe portare ad un rapido aumento dell’inflazione e “secondo l’economia neo-classica” aumentare la disoccupazione.

Fonte: Socialists & Democrats

Altro effetto non trascurabile è l’aumento del costo del lavoro: immaginiamo di essere un’azienda che voglia assumere a tempo indeterminato un dipendente con retribuzione annua lorda di euro 20.600. Sopporteremmo altri costi tra cui: aliquota INPS del 30%, aliquota INAIL del 22%, TFR, tredicesima e eventualmente quattordicesima. Non consideriamo altri costi indiretti e di formazione.

A fronte di questi dati, per mettere euro 18.700 netti nelle tasche del dipendente un’azienda sostiene un costo totale di euro 31.261. Un aumento incondizionato dei salari farebbe lievitare ancora di più questi costi scoraggiando nuove assunzioni.

Quando nel 2015 in Germania è stata introdotta la norma sul salario minimo questa ha avuto effetti neutri sul tasso di occupazione, ma ha avuto effetti positivi su circa il 15% dei lavoratori coinvolti. Risultati piuttosto deboli nel complesso e che sono ben lontani da rappresentare per l’Italia una soluzione sia alla disoccupazione che si attesta al 10,5% (ISTAT, luglio 2021) sia al numero di NEET (giovani dai 15 ai 29 anni che non lavorano né studiano) che è di 2,1 milioni (Eurostat, aprile 2021).

Basandoci su dati empirici, e non su osservazioni squisitamente ideologiche, emerge una doppia verità di fondo. Se è vero che il costo del lavoro nel nostro paese è molto alto, a fronte di un welfare state che è si consistente ma non performante, d’altro canto non godiamo verosimilmente di una classe imprenditoriale illuminata e sempre corretta nei confronti dei propri dipendenti.

Il salario minimo è già presente in quasi tutti i paesi dell’Unione Europea, i quali lo hanno adottato per migliorare il livello di benessere di una parte di coloro che già lavorano e salvaguardare le loro assunzioni. La Commissione Europea a febbraio 2021 ha poi iniziato a discutere di una possibile uniformazione del salario minimo in tutti gli stati membri. Per quanto riguarda il nostro paese, non è però la soluzione definitiva in grado di ridurre il numero di NEET e il peso dell’economia sommersa.

È invece compito dello stato tentare di superare queste criticità semplificando i processi burocratici, eliminando costi di avvio d’impresa superflui e tagliando il costo del lavoro che pesa sulle spalle di chi crea quella stessa opportunità lavorativa. Sono da tempo necessari provvedimenti di riforma della PA, del sistema fiscale e previdenziale: vengono spesso promessi, ma finora nessuno ha voluto prendersi la grande responsabilità di una necessaria spending review.

Solo un partenariato pubblico-privato che spinga alla produttività, alla concorrenza e all’innovazione potrebbe creare nuovi posti di lavoro e spingere ad una maggiore inclusione sociale, mai così necessaria dopo la crisi dovuta alla pandemia.

Alberto Fioretti

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