Il film ebbe un’ottima accoglienza sia di pubblico che di critica, anche se con qualche taglio e alcune modifiche ai dialoghi

Una fiammante Alfa Romeo 2.600 spider viaggia da Milano a Pisa, alla guida c’è Antonio Berlingheri ingegnere milanese. Siamo a fine estate e la strada è mezza vuota, la giornata è serena e il viaggio si preannuncia rapido e senza scosse. Il mare è poco lontano e sembra di sentire lo sciabordio delle onde che si infrangono sulla battigia. L’ingegnere sta andando a trovare il figlio in collegio e, mentre pensa a come sarà l’incontro con il bambino, ecco che si imbatte in una combriccola di giovani che stanno passando il week end in una casetta sulla spiaggia. La loro macchina è senza benzina e gli chiedono se può aiutarli. Il senso de “La voglia matta”, film di Luciano Salce del 1963, è tutto in questo incontro.

La gioventù, allegra, scapestrata, senza regole, senza ideali e l’ingegnere benestante. Un “vecchio” e dei ragazzi. In realtà Tonino Beringhieri ha solo trentanove anni, diciamo quasi quarana, un’età che oggi è considerata poco più che adolescenziale, però loro, i giovani di quell’epoca, lo vedono come un anziano, un tipo senza slanci, freddo, con una vita ben impostata e piuttosto arida. E il fatto è che hanno ragione, Antonio Berlingheri è proprio così, un uomo arrivato, moderatamente ricco, soddisfatto di sé, un po’ egoista e con una propensione a considerare le donne come semplice terra di conquista, un accessorio insomma.

La vita però spesso ci mette alla prova, ci misura, ed ecco che il nostro ingegnere si trova, suo malgrado, coinvolto nelle avventure della combriccola e questo avviene proprio a causa di una di quelle creature che lui considera terra di conquista. La creatura in questione è Francesca, una splendida Catherine Spak, poco più che diciassettenne, della quale si invaghisce irrimediabilmente. Il film si gioca tutto su questa relazione, non relazione in verità, tra la pseudo lolita e il vecchio satiro, (interpretato da un eccezionale Ugo Tognazzi), che poi come abbiamo detto, così vecchio non è. Gli ammiccamenti, anche velatamente sessuali, da parte di Francesca fanno impazzire l’ingegnere, e così lo vedremo impegnato in una specie di competizione, prima mentale e poi anche fisica, per tenere testa alla scatenata banda di scapestrati. Il legame quasi tribale tra i ragazzi è però un muro invalicabile per Tonino, è il muro della gioventù che non concede alcuno spazio al compromesso e che va dritto al suo scopo.

La voglia matta. La recensione del film di Luciano Salce
Fonte: Sentieri selvaggi

Certo, pieno di contraddizioni, ma più sincero delle avance dell’ingegnere. Eccolo dunque impegnato in una nuotata in cui, per sentirsi all’altezza degli altri, rischia di annegare, o nella gara di bellezza dove ovviamente è soccombente davanti ai giovani corpi con i quali deve misurarsi.

Insomma, la gioventù contro la pseudo maturità, la bellezza contro la solida moralità bigotta e insincera. L’incontro riporterà Tonino indietro nel tempo, ai suoi vent’anni; tuttavia, la vita ormai lo ha forgiato e a nulla servirà lasciarsi andare a una passione che metterà ancora di più in evidenza la sua immaturità e il suo egoismo.

Dopo una notte passata fra riverberi di un’apparenza impossibile e l’illusione che Francesca possa entrare concretamente nella sua vita, si sveglierà, solo sulla spiaggia, con il mare che, con il ripetersi monotono delle onde sul bagnasciuga, lentamente gli bagna i vestiti. La piccola tribù è sparita, Tonino lentamente si avvia verso la sua auto, mette in moto e si accige a tornare alla vita di sempre. Il cielo plumbeo, appena illuminato da un’aurora che ha da poco superato l’alba, mostra che quel giorno se n’è andato e che anche l’estate è finita. Ora forse ha già raggiunto i fatidici quarant’anni o forse cento, quelli che si sente addosso.

La scena finale de La voglia matta è bellissima, un emblema alle stagioni che se ne vanno, il mare sovrastato dal promontorio scuro e Tonino che si allontana, sfatto, domato; lontano l’eco della musica della notte passata, Brigitte Bardot di Jorge Veiga e la tribù che danza, e il sole che tramonta e il niente che prende spazio. Ricorda il finale de La dolce vita più vecchio di soli due anni, con Marcello che sulla spiaggia dell’alba, dopo una festa di bagordi, sente la voce della sua coscienza che gli chiede di fermarsi e tornare ai suoi sogni, stesse luci, stesso cielo plumbeo, stesso tempo andato. 

Il film ebbe un’ottima accoglienza sia di pubblico che di critica e, sebbene la censura abbia cercato di bloccarlo, riuscì comunque ad approdare nelle sale, anche se con qualche taglio e alcune modifiche ai dialoghi. Protagonista assoluto è, come già detto, uno straordinario Ugo Tognazzi.

L’attore, dopo Il federale dell’anno precedente, sempre diretto da Salce, in cui per la prima volta esce dal clichè comico ai margini dell’avanspettacolo, si inserisce di nuovo in un contesto che lo vede al centro di una storia che, pur restando nell’ambito della commedia, ha dei risvolti profondamente amari. Dopo un piccolo ruolo ne Il sorpasso di Dino Risi, ritroviamo la giovanissima Catherine Spak nei panni della lolita che sconvolge per un giorno la vita dell’ingegner Berlingheri, molto brava e molto sé stessa, fresca e sconclusionata.

Nel cast anche Fabrizio Capucci, che dopo poco si sposera con la Spak e un divertente Gimmy Fontana, che qualche anno più tardi si sarebbe fatto conoscere con il Mondo, brano musicale di grande successo. Un’ultima annotazione va ai luoghi dove il film è stato girato. Nella storia l’ingegnere è in viaggio da Milano a Pisa ma, come è facilmente intuibile, non esiste una strada così tra le due città, ecco quindi che Salce scelse di ambientare la pellicola nel meraviglioso lungo mare di Sabaudia, uno spazio particolarmente magico e fortemente adatto a rappresentare un racconto in cui si potessero fondere idealmente la spensieratezza della gioventù, la fine dell’estate e il passare del tempo.

Lello Mingione

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