Dialogo con Alfonso Celotto, Professore di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Roma Tre
Lo stato di democrazia del nostro Paese, l’ombra del presidenzialismo, riforme a metà e la necessità di integrazioni. Tante le questioni aperte che hanno infiammato la campagna elettorale delle elezioni politiche dello scorso 25 settembre e che continuano ad animare il dibattito politico e l’opinione pubblica. Ne parliamo con Alfonso Celotto, Professore di Diritto Costituzionale all’Università degli Studi di Roma Tre, in un’intervista un po’ trafugata, tra un appuntamento e l’altro in un periodo sicuramente febbrile per chi la politica la mastica ogni giorno.
Il 25 settembre, per la prima volta, gli italiani hanno votato per il rinnovo di un Parlamento ridotto – 400 deputati e 200 senatori – in seguito alla riforma costituzionale sulla riduzione del numero di parlamentari. Riforma che, come è stato ripetuto più volte, avrebbe dovuto essere accompagnata da una nuova legge elettorale per evitare incongruenze di vario genere. Ma, come sappiamo, così non è stato.
E infatti, molti i problemi: “Abbiamo sicuramente meno rappresentatività, perché molti territori e province sono senza un Senatore di riferimento che si traduce in meno diversità in Parlamento. In fondo, in uno Stato come l’Italia è importante il pluralismo.”
Due le certezze sul Rosatellum: “Che ci sia meno rappresentatività è sicuro; e che questa legge elettorale non è una legge elettorale, anche questo è sicuro.”
Ma è importante fare un passo indietro, tornare al 2019, a quel referendum costituzionale per l’approvazione della riforma sul taglio dei parlamentari. Riforma passata con quasi il 70% del consenso popolare, un livello molto alto che ha messo in luce quel sentimento anti-casta evidentemente diffuso – forse troppo – tra l’elettorato. Uno strumento, quello del referendum, di democrazia diretta forse abusato da chi vuole farne un mezzo di validazione della propria piattaforma politica.
“Sicuramente, negli ultimi tempi, è diventato un plebiscito più che un referendum, e i riferimenti sono tanti, anche fuori dall’Italia: basti pensare ai referendum farsa da parte della Russia dell’annessione dei territori ucraini occupati [23 settembre 2022, ndr], ai plebisciti rinascimentali di annessione del 1859 e 1860, oppure al referendum in Bulgaria del 1946 simile a quello italiano per scegliere tra repubblica o monarchia, dal risultato scontato già prima delle votazioni. Questo dimostra come il referendum, a volte, venga utilizzato soltanto per far comprovare alla volontà popolare cose in realtà già decise.”
Ma, per fortuna, non è sempre così: “Altre volte i referendum sono veri, come quello costituzionale del 1946, quello sul divorzio del 1974, o, ancora, quello sull’aborto del 1978. Questo dimostra come sia importante portare al popolo scelte che possa comprendere e non solamente avallare scelte di fatto già prese, dall’esito scontato.”
Da ribadire quindi, che “la democrazia diretta va usata con saggezza: non è un caso che i costituenti ci dicono che la Costituzione si riforma con una maggioranza ampia, i due terzi del Parlamento, e non necessita, in caso di raggiungimento di questa soglia, del consenso popolare.”
Perché? “Perché il popolo, come abbiamo visto nel 2016 con il referendum costituzionale che, tra le altre cose, prevedeva l’abolizione del bicameralismo perfetto, non ha la capacità tecnica di capire, per esempio, come deve essere composto il Senato o se le Regioni devono avere più o meno competenze. Quindi, il popolo può essere chiamato per scelte secche o grandi dubbi costituzionali e sociali, altrimenti il referendum diventa uno strumento confuso.”
E poi, alla domanda su una possibile svolta autoritaria dell’Italia in seguito alla vittoria di Fratelli d’Italia, Alfonso Celotto risponde così: “Non ho timori sulla democrazia in Italia, dove è consolidata da 75 anni. Certo, è una democrazia giovane rispetto a quella francese, inglese o americana, ma è forte. Sicuramente non mancano le difficoltà: oggi le democrazie occidentali soffrono lo scarso ruolo dei partiti aggravato dalla scarsa intermediazione fra popolo e rappresentanti, dal ruolo che stanno assumendo i mezzi di comunicazione di massa e il digitale, dalla difficoltà di prendere decisioni da parte della politica, come d’altronde sperimentiamo in casa nostra – si pensi, banalmente, al rigassificatore di Piombino o all’inceneritore di Roma.” C’è un però: “La democrazia è ancora il miglior strumento che noi abbiamo, e io sono convinto che la democrazia, che è anche alternanza, porta con sé strumenti di garanzia.”
Rassicurazioni anche sul presidenzialismo – in breve, quella riforma costituzionale che prevede l’elezione diretta del Capo dello Stato. “L’Italia ha già fatto due riforme in questo senso. Facendo un bel passo indietro, l’Assemblea costituente scelse una forma di governo parlamentare e per i comuni e per le regioni, che, negli anni Novanta i Comuni e dieci anni dopo le Regioni, sono passati al presidenzialismo, molto vicino a quello americano per i sindaci e i governatori regionali. C’è da dire che a livello locale funzionano meglio. E abbiamo visto come questo comporti una maggiore responsabilizzazione e capacità di governo.”
E, quindi, è da chiedersi se questi benefici possano essere traslati su scala nazionale. “In una forma di Stato presidenziale, il Presidente ha maggiore capacità di governare, tenendo conto di uno dei più grandi problemi italiani, la stabilità di governo. In questo senso il presidenzialismo consentirebbe una migliore governabilità.”
Dall’altra parte, va ricordato che “c’è bisogno di garanzie, di bilanciamenti, di limiti al presidenzialismo, che altrimenti può sfociare in sistemi autoritari.”
Da ricordare poi come ci siano “sistemi presidenziali – Francia e Stati Uniti – che funzionano molto bene, come altrettanti sistemi parlamentari, come la Germania. Invece, il sistema parlamentare italiano non ha dato buona parola di sé.”
Forse è bene mettere da parte paure e scetticismo verso un cambiamento, alla luce dei risultati elettorali, ampiamente richiesto dai cittadini, sempre nel rispetto delle regole democratiche del Paese. Certo è che “la democraticità” dell’Italia non è in discussione.
Susanna Fiorletta