Le profezie hanno il difetto di farsi apprezzare solo dopo che si sono tragicamente avverate

Ci sono momenti nella vita di un Paese destinati a fare la storia. Momenti che nella loro tragicità contribuiscono a formare la coscienza collettiva di un popolo. Il 16 Marzo 1978 è stato uno di questi. Quella mattina, che molti ricordano e che ad altri è stata raccontata, l’Italia si ritrovò risucchiata in un vortice di paura e sgomento nell’apprendere la notizia che mai nessuno si sarebbe aspettato, neanche lontanamente, di udire.

Le agenzie di stampa riportavano, infatti, la notizia di un attentato verificatosi in via Mario Fani, una traversa di via Trionfale, in cui era avvenuto il sequestro di Aldo Moro, ex presidente del Consiglio e presidente della DC, e l’uccisione degli uomini della sua scorta. L’attentato, subito rivendicato dalle Brigate Rosse, durò pochissimo (circa 10 minuti), ma riuscì comunque nell’intento di colpire al cuore lo Stato.

Il rapimento di Moro gettò rapidamente il Paese nel caos e fece paurosamente tremare la fragile democrazia italiana. La gravità dell’accaduto spinse i sindacati a  proclamare lo sciopero generale dei lavoratori e la Camera dei Deputati a sospendere ogni attività legislativa in corso fino a quel momento. Una decisone resa, peraltro, necessaria dalla circostanza che proprio a Montecitorio, la mattina del 16 Marzo, si sarebbe dovuta tenere la discussione sulla fiducia al nuovo governo presieduto da Giulio Andreotti.

Fonte: nuovefrontiere.eu

Governo, che per la prima volta dal 1947, si reggeva sull’appoggio, esterno ma determinante, del PCI di Enrico Berlinguer (cosiddetto governo della non-sfiducia). Invero, alla costruzione della nuova maggioranza, Aldo Moro aveva dedicato nei mesi precedenti al sequestro ogni energia, sfidando quanti nella DC erano ostili all’idea del Compromesso storico. Un accordo questo che, facendo convergere le forze cattoliche, laiche e socialiste su un’unica piattaforma programmatica, spianava la strada a una rivoluzione copernicana della politica italiana, ferma da troppo tempo alle liturgie dell’immediato dopoguerra.

La svolta, tuttavia, non piaceva a molti e ciò procurò  a Moro diverse critiche (fra cui quella di usare un linguaggio oscuro per non fare comprendere le sue reali intenzioni) e suscitò parecchie preoccupazioni. A Washington, in particolare, qualcuno fremette alla notizia di un’imminente entrata dei comunisti al governo.

E al riguardo sono ormai note le minacce che Henry Kissiger, Segretario di Stato USA, rivolse a Moro in occasione del suo viaggio nella capitale americana. Tale evenienza ha poi alimentato le speculazioni successive  su un presunto coinvolgimento degli Usa nel sequestro. Dubbi avvalorati  dalla presenza sul luogo della strage di uomini dei servizi impegnati nell’operazione Gladio (Stay Behind), operazione che aveva come obiettivo il contrasto al comunismo nei paesi della Nato. Una circostanza questa che non fu smentita mai da nessuno, nemmeno dai terroristi che presero parte al sequestro.

Misteri che si addensano nei 55 giorni successivi al rapimento e che, ancora oggi, a 45 anni dalla morte dello statista democristiano, animano il dibattito pubblico. Come la scomparsa della valigetta personale di Moro, prelevata da qualcuno in Via Fani e occultata senza che ve ne rimanesse traccia. Cosa contenesse la valigetta non è, purtroppo, dato saperlo, ma probabilmente vi erano indizi idonei a compromettere la posizione di più di una persona.

Una sorte analoga è poi toccata al famoso memoriale di Moro, rinvenuto dai carabinieri del generale Dalla Chiesa nel covo delle Brigate Rosse di via Monte Nevoso, a Milano, nell’autunno del 1978. Il memoriale, muovendo accuse ben precise verso alcuni dirigenti democristiani, è scomparso nel 1978 per poi riapparire, parzialmente, nel 1990, anno della scoperta di Gladio. Proprio l’organizzazione, che è spesso richiamata nella vicenda, ha contribuito a infittire i misteri sul ruolo giocato da alcuni apparati dello Stato nella pianificazione del sequestro.

In particolare, a destare scalpore, fu la presunta seduta spiritica, svoltasi in una abitazione romana, in cui venne indicato il nome della prigione di Moro. In tale esoterico contesto venne pronunciato la parola Gradoli, una località situata nel viterbese. Sfortunatamente, si apprenderà solo dopo, Gradoli non indicava la città, ma l’omonima via di Roma, che fu fino al 18 Aprile del 1978 la prigione di Aldo Moro. Una via divenuta da quel giorno universalmente nota come la via delle spie, crocevia di tutte le trame oscure che ormai da decenni attraversano la vita del Paese.

Un riferimento quello alle spie dovuto alla presenza in quel luogo di molti appartamenti affittati a membri dei servizi segreti (fra cui alcuni affiliati a Gladio). Sempre questa, secondo le successive indagini degli inquirenti, avrebbe avuto importanti collegamenti con una scuola di lingue di Parigi: l’istituto Hyperion. La scuola, fondata nel 1977, fu a lungo ritenuta un centro di formazione culturale marxista per i terroristi rossi di mezzo mondo. In verità, come emerso in seguito, L’Hyperion era, con molte probabilità, una centrale di coordinamento della Cia per le operazioni in Europa.

Secondo poi il capo della colonna romana delle BR, nonché assassino di Moro, Mario Moretti, la pianificazione del sequestro sarebbe avvenuta proprio qui e per motivi che restano, ancora oggi, in gran parte ignoti ( come oscuro è il ruolo avuto da Moretti nella vicenda). Senza ombra di dubbio, però, assumendo come presupposto che molti interrogativi sul caso Moro resteranno insoluti, è appena il caso di fare qualche riflessione su quanto accaduto più di 40 anni fa.

Sotto il profilo dell’analisi storica, l’intuizione di Moro andava nella giusta direzione, ovvero quella di superare la democrazia bloccata, cercando convergenze parallele con il Partito Comunista. Un’idea che, oggi si può pacificamente affermare, precorse i tempi, favorendo la nascita vent’anni dopo dell’Ulivo e poi del PD.

È tanto più innegabile che Moro vedesse come prossimo al crepuscolo il sistema politico della sua epoca e di come egli, prima di Tangentopoli, avesse messo in guardia il suo partito, La Democrazia Cristiana, dai rischi di un’amministrazione del potere pubblico poco trasparente. Un richiamo alla sobrietà dei costumi che è stato al centro anche del dibattito sulla questione morale di Enrico Berlinguer.

Un richiamo rimasto inascoltato, ma che nella notte della Repubblica di Mani Pulite, si è dimostrato oltremodo profetico. E si sa che le profezie hanno il difetto di farsi apprezzare solo dopo che si sono tragicamente avverate.

Gianmarco Pucci

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