La morte dei fratelli Kennedy ha rappresentato per l’era contemporanea, più di un semplice e passeggero accadimento
Sono passati sessant’anni esatti da quello che lo storico Robert Dallek ha definito il “giorno più cupo della storia della democrazia moderna”. Il secondo, di poco successivo, chiuderà definitivamente le speranze di un’intera generazione di americani e, con esso, la parabola di una famiglia che aveva scalato tutti i vertici della politica statunitense.
La morte dei fratelli Kennedy, infatti, ha rappresentato per l’era contemporanea più di un semplice e passeggero accadimento. Esso è stato un autentico spartiacque fra ciò che si sarebbe potuto e ciò che non si è voluto fare per la causa della libertà.
Al riguardo, tutti coloro che ne hanno memoria ricordano nitidamente cosa stessero facendo quando le prime agenzie di stampa iniziarono a battere la notizia dell’attentato di Dallas. Non che JFK fosse il primo presidente ad essere ucciso, ma certamente è stato il primo inquilino della Casa Bianca a morire sotto la luce dei riflettori. E con esso morì anche la “Nuova Frontiera”, la cui marcia trionfale era iniziata appena tre anni prima.
Fonte: MeteoWeb
Fu allora che, quasi per caso, emerse dal buio il volto di questo giovane senatore, erede di un importante famiglia irlandese da decenni impegnata nella vita pubblica americana. Egli, vantando una telegenicità fuori dal comune, riuscì a imporsi su un veterano della politica americana come Richard Nixon, dato per favorito alla vigilia delle elezioni del 1960.
Si disse in quel frangente che la vittoria di Kennedy rappresentava l’idea di una democrazia ancora giovane e carica di promesse per l’avvenire. Invero, essa fu anche il preludio a una lunga scia di rancori e dissapori che contribuiranno alla fine prematura della sua esperienza politica.
A Washington in molti, specialmente fra le gerarchie più conservatrici, detestavano i Kennedy e quell’aura regale che li accompagnava. Leggendone la storia famigliare, non per niente, l’idea che uno si può fare e che JFK fosse un predestinato alla Presidenza. Secondogenito di Joseph Kennedy Sr, già ambasciatore nel Regno Unito sotto la presidenza Roosevelt, e di Rose Fitzgerald, figlia del celebre sindaco democratico di Boston, il giovane Jack, come veniva chiamato in famiglia, si trovò suo malgrado proiettato verso la Presidenza. Ciò a causa della morte del fratello maggiore Joe, avvenuta quando entrambi prestavano servizio in Marina durante il Secondo conflitto mondiale.
Dopo la laurea ad Harvard, arriva la prima candidatura alla Camera dei Rappresentanti per il Massachusetts, storica roccaforte della famiglia fin dal XIX secolo. Trascorsi otto anni, nel 1953 vinse l’elezione al Senato e, da lì a poco, la campagna per la Presidenza degli Usa.
Da outsider, nel corso delle primarie democratiche, riuscì ad avere ragione di candidati ben più forti e accreditati come Adlai Stevenson II e il futuro Vicepresidente Lyndon B. Johnson. Proprio di Johnson, si dirà in seguito, che, non avendo digerito un ruolo secondario nell’amministrazione, abbia cospirato con quanti ritenevano Kennedy una minaccia per la sopravvivenza dell’America. Fra questi, quali mandanti morali del delitto, vi erano numerosi generali, preoccupati dall’atteggiamento troppo cauto di JFK in politica estera. Relativamente all’insorgente conflitto in Indocina, le alte sfere del Pentagono accusavano l’amministrazione di essere troppo indulgente verso l’espansionismo sovietico nel sud-est asiatico. Tale obiezione tornò a serpeggiare all’indomani della Crisi di Cuba, allorché l’atteggiamento del Presidente sembrò troppo pacato nei confronti del regime di Fidel Castro.
Questi veleni avrebbero probabilmente armato la mano di Lee Harvey Oswald, ex marine implicato più o meno direttamente nel fallito sbarco nella Baia dei Porci. Ciò lascia intendere che la decisione di uccidere il Presidente sia stata presa in seno agli ambienti militari, da tempo insofferenti verso lo spirito riformatore di JFK. Fra questi, vanno annoverati anche i vertici dei servizi segreti dell’epoca e con cui non correva buon sangue.
È nota, infatti, l’antipatia di Kennedy per Edgar Hoover, storico capo del FBI, e che il Presidente avesse rimosso forzatamente Allen Dulles dalla CIA all’atto del suo insediamento. Se poi si aggiunge un ruolo non marginale della mafia nella cospirazione, a causa dell’inchiesta del Dipartimento della Giustizia sui legami fra questa e il sindacato degli autotrasportatori, diventa chiaro come potessero essere tanti a volere morto il Presidente. Tuttavia, a dispetto di queste ricostruzioni, tutte ugualmente plausibili, resta che la morte di John Fitzgerald Kennedy, primo presidente cattolico della storia statunitense, è ancora avvolta nel mistero. Malgrado le ultime divulgazioni, non si è ancora giunti a una versione univoca su ciò che avvenne a Dallas la mattina del 22 novembre 1963.
Ciononostante, la famiglia Kennedy continua ad avere voce in capitolo nelle vicende che riguardano la vita politica della loro nazione. Considerando lo stato di salute non proprio ottimale della democrazia statunitense, l’idea di un nuovo Kennedy è quanto di più suggestivo possa esserci per inaugurare un nuovo corso di cui in molti, fuori e dentro i confini americani, sentono ormai l’inevitabile bisogno.
Gianmarco Pucci