Questa vicenda pone un precedente che potrebbe tornare utile a tutti coloro che, senza un valido motivo, si sono visti bloccare il proprio accesso con problemi anche professionali

Facebook, il social network più famoso al mondo con 2,85 miliardi di utenti attivi mensilmente sul social, stando ai dati del 2021, è anche la piattaforma virtuale che ha oscurato, o se preferite, sospeso un numero estremamente elevato di iscritti per post o immagini che, a detta di algoritmi prestabiliti, avrebbero recato offesa alla comunità della F più famosa al mondo.

Spesso e volentieri questi blocchi avvengono dopo un’ammonizione del social che, come in ambito calcistico, mostra il cartellino giallo, senza però dare all’utente la possibilità di difendersi. Anche chi scrive ha ricevuto una diffida e quando, attraverso un gioco di “botta e risposta” ho provato a spiegare che il post pubblicato non arrecava offesa per nessuno, l’algoritmo ha risposto con una ammonizione sostenendo che la mia risposta era stata sì presa in considerazione ma non era stata giudicata “valida”.

Pensare che qualcuno in carne ed ossa abbia realmente visionato quanto scritto sarebbe estremamente infantile; è evidente che si tratta di canali informatici preimpostati che “rispondono” al posto della persona e che, di conseguenza, impediscono di poter chiarire, con chi di dovere, la situazione.

Con sentenza n. 1659/2021, la Corte d’Appello di L’Aquila ha segnato il punto sul tema contrattuale tra l’utente e il Social network, a seguito di un ricorso effettuato da un iscritto che, in maniera del tutto illogica, si è trovato l’account sospeso per post e commenti pubblicati.

Ma entriamo un po’ più nel dettaglio: a seguito della violazione degli “standard della comunità” che hanno portato al blocco del profilo, la Corte territoriale ha avuto modo di sottolineare che “si stipula un contratto per adesione mediante il ricorso a moduli online predisposti unilateralmente dal social network alle cui clausole si applica la legge italiana. L’utente/consumatore può scegliere la giurisdizione competente in base al regolamento Ce 593/2008 sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. L’adesione al contratto comporta il sorgere di doveri reciproci. Se da un lato, dunque, Facebook mette a disposizione una community, dall’altro l’utente concede al social in questione la facoltà di usare, a determinate condizioni, i propri dati personali. Si tratta quindi di un contratto a titolo oneroso e a prestazioni corrispettive, dove il “prezzo” pagato dall’utente è rappresentato dalla concessione per fini commerciali dei propri dati personali”.

Stando a quanto riportato ogni piattaforma virtuale può inserire clausole che le consentano di rimuovere post di utenti e/o sospendere gli account, che non possono essere considerati lesivi a patto però di valutare attentamente la reale presenza di contenuti offensivi prima di sospendere o rimuovere un account.

Ritenendo, dunque, valide le prime due sospensioni dell’account, la Corte non ha espresso il medesimo parere per i blocchi successivi poiché, come si legge “la mera pubblicazione di una foto con un commento che si limita all’espressione del proprio pensiero (…) non è sufficiente a violare gli standard della comunità”

Facebook non è un tribunale e la giustizia non va strumentalizzata - Sotto  Un Cielo di Bit
Fonte: http://www.massimomelica.net/

Nel 2018 questo utente aveva pubblicato sul suo profilo una fotografia ritraente un soggetto non meglio specificato nel giorno del compleanno, e accompagnando l’immagine con una didascalia; poche ore dopo ecco giungere sulla suddetta piattaforma un avviso di rimozione della foto pubblicata, poiché considerata non rispettosa degli standard della comunità, con conseguente sospensione dell’utilizzo dell’account per la durata di trenta giorni.

Poco tempo dopo, l’amministrazione del social network comunicava all’utente, una nuova sospensione dell’utilizzo del profilo per tre giorni, a causa della pubblicazione di un’immagine della bandiera della Repubblica Sociale Italiana ritenuta anch’essa lesiva dei soliti standard comunitari.

Sempre la stessa persona alcuni giorni dopo questo avviso aveva ricevuto un terzo messaggio con il quale veniva comunicata la rimozione di un’altra fotografia data 1939 in cui appariva una scritta non specificata che però era stata considerata incompatibile con le regole del Social.

A seguito, poi, di un commento (rivolto ad un terzo soggetto) riportato su una pagina intitolata “Una Bologna peggiore è possibile?”, ecco giungere l’ennesimo avviso di sospensione dell’account per ulteriori trenta giorni.

Nel 2019, un altro avviso di stop per trenta giorni per la pubblicazione di un post contenente l’immagine di un pilota di guerra, arricchita da una didascalia descrittiva della sua tragica morte.

La Corte d’Appello di L’Aquila ha, pertanto, provveduto a condannare definitivamente il social network dando disposizione di corrispondere all’utente la somma 3.000 euro come risarcimento del danno (contro i 15.000 chiesti dalla “vittima” per danni morali e relazionali e per la violazione e l’erronea applicazione degli “standard della comunità”).

Questa vicenda pone un precedente che potrebbe tornare utile a tutti coloro che, senza un valido motivo, si sono visti bloccare il proprio accesso con problemi anche professionali (l’uso dei social non si limita solo ad un discorso di carattere privato) e che, nell’impossibilità di parlare con dei responsabili, hanno dovuto “accettare” questa penalità, fermo poi vedere post offensivi di altri account totalmente ignorati dai “capoccia” della F più famosa sul pianeta reale e virtuale.

Stefano Boeris

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