Una Roma come Blade Runner, cupa e piovosa ed una festa in cui trovano spazio musica, droga, sesso e chissà quanto altro. Questi i primi fotogrammi della pellicola di Stefano Sollima

Una Roma come Blade Runner, cupa e piovosa. Manuel, un ragazzino di sedici anni che, dopo aver mostrato delle credenziali a chi controlla, accede all’interno di un palazzo storico; c’è una festa, una specie di orgia omosessuale in realtà, con musica, droga e sesso e chissà quanto altro.

Questi i primi fotogrammi di “Adagio”, il nuovo film di Stefano Sollima. Il ragazzo si muove disorientato fra alcol e droghe e personaggi inquietanti, è giovane, ma sveglio, si accorge che dietro uno specchio c’è qualcosa di strano, una telecamera. 

Fonte: MyMovies

Ecco che le immagini si spostano in un appartamento. Vasco, un uomo con due ragazzi, i figli; sta preparando la cena. È tutto ancora cupo, a mala pena riusciamo a distinguere i volti. Una telefonata e l’uomo esce in fretta dalla casa, non prima però di aver infilato nella cinta dei pantaloni una pistola. Una lunga corsa in macchina per arrivare davanti al palazzo storico dove si svolge la festa. Il ragazzino non c’è.

Due uomini escono da una autovettura e dicono di averlo visto solo entrare. In realtà il giovane è uscito dal retro e nessuno se ne è accorto. Ha capito che c’è qualcosa che non va e torna a casa. Vive col nonno, un personaggio a dir poco inquietante soprannominato Daitona, al quale racconta quanto accadutogli. Daytona ha per lui poche parole, gli dice solo che l’ultimo posto dove stare è quello, deve andare via, allontanarsi il più possibile da quella casa.

Gli indica un nome Polniuman, un vecchio amico dei tempi che furono, e gli chiude la porta in faccia. Inizia la lunga fuga del ragazzo e il lungo inseguimento di Vasco. Facciamo fatica a seguire il perché di tutto, capiamo solo che c’è qualcosa di torbido e inquietante. Le immagini e i personaggi si susseguono a ritmo serrato, lasciandoci solo il tempo di immergerci nell’angoscia della fuga di Manuel. Sembra che non ci sia scampo, ora si trova nella casa di un altro personaggio forte, Cammello al quale lo ha indirizzato Polniuman. La fuga e l’inseguimento non si arrestano e ad un tratto, come una visione, ci rendiamo conto che tutto ciò che avviene è fortemente legato a una vita passata, quaranta, forse cinquanta anni prima.

Vecchi criminali, ormai disillusi e fuori gioco rientrano come protagonisti in un’epoca che non riconosce la loro forza, un potere assoluto che esercitavano su Roma, la famigerata banda della Magliana. Il film si muove allineandosi perfettamente a quel periodo cupo, lasciando intravedere solo alla fine un raggio di speranza.

Straordinaria la carrellata di personaggi della vecchia banda, con Daytona, un Toni Servillo a dir poco eccezionale, Polniuman, Valerio Mastandrea capace anche in questo caso di trasmettere al meglio la sua romanità, così come Vasco, il carabiniere interpretato da un Adriano Giannini sempre più convincente, ingrassato per l’occasione di dieci chili.

Fonte: ELLE

Dieci chili invece li ha persi Pierfrancesco Favino, calato in modo impeccabile anche lui nei panni di un vecchio criminale, Cammello, incapace di liberarsi definitivamente del suo passato, ma comunque legato a una morale che il regista ci lascia pensare, una volta esistesse.

Molto bravo anche il giovane Gianmarco Franchini nei panni del ragazzo spaesato che si trova al centro di una storia molto più grande di lui. Stefano Sollima chiude così la trilogia iniziata con “Romanzo criminale”, serie televisiva seguita alla pellicola di Michele Placido e poi da “Suburra”. Eccolo ora al film“Adagio”.

Un compendio giusto ed equilibrato dei suoi lavori precedenti, una chiusura quasi romantica di un mondo criminale che di romantico non ha proprio nulla. Eppure, il regista sembra indugiare quasi con affetto su quella vecchia criminalità, come se Polniuman, Daitona e Cammello,per quanto patetici, mantengano un senso dell’onore ormai perduto.

Numerosi sono gli omaggi al cinema, come l’inquadratura sulla camminata di Daitona che esclude il resto del corpo, evidente riferimento ai soliti sospetti di Bryan Singer, così come forte è l’ispirazione verso maestri d’oltre oceano come Michael Mann e William Friedkin.

Un grande riconoscimento va anche alla fotografia di Paolo Carnera puntuale nel raccontare una Roma cupa che si muove tra un blackout e una pioggia, Black Rain, insistente e ruvida.

Lello Mingione

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