Ci lascia l’ultima grande firma del nostro Giornalismo. Al di là delle personali convinzioni politiche, è indubbio che la figura di Eugenio Scalfari sia stata la rappresentazione di uno Stile che solo apparentemente sembra essere superato

Pannunzio, Longanesi, Montanelli, Biagi, Bocca e Scalfari. Sono questi i sei grandi nomi che hanno scritto pagine indelebili nella Storia del Giornalismo italiano.

Penne incisive che, seppur in epoche diverse, hanno lasciato un solco profondo, sovrapponendosi in alcuni periodi storici che hanno portato al nostro oggi. L’ultimo a salutarci è stato proprio Eugenio Scalfari, fondatore de “L’Espresso” e “La Repubblica”. Aveva 98 anni.

Nato a Civitavecchia da genitori calabresi, frequentò dapprima il Liceo classico Mamiani per poi passare al G.D. Cassini di Sanremo, dove si era trasferito con la famiglia per via del lavoro del padre, che ricopriva il ruolo di direttore artistico del locale Casinò. Suo compagno di banco fu il futuro scrittore Italo Calvino. 

Durante gli anni universitari, il giovane Eugenio ebbe modo di avvicinarsi a quella realtà che lo avrebbe segnato per tutta la vita: il Giornalismo. Le prime esperienze lo videro impegnato nella rivista “Roma Fascista”, l’organo ufficiale del GUF (Gruppo Universitario Fascista). Scrisse una serie di corsivi non firmati sulla prima pagina del giornale in cui amava lanciare generiche accuse verso speculazioni da parte di gerarchi in merito alla realizzazione dell’EUR. Questi pezzi gli costarono l’espulsione dal Gruppo.

Terminata la Seconda Guerra Mondiale, si avvicinò al Partito Liberale Italiano e lì, ebbe modo di incontrare giornalisti importanti della carta stampata. Nel 1950, mentre era impiegato presso la BNL (Banca Nazionale del Lavoro), strinse una collaborazione con “Il Mondo” e “L’Europeo” in cui conobbe nomi del calibro di Mario Pannunzio ed Arrigo Benedetti.

L’esperienza alla BNL terminò con un licenziamento (di cui il futuro Direttore de “La Repubblica” andrà molto orgoglioso) dovuto ad una serie di articoli sulla Federconsorzi non graditi alla direzione.

Fonte: La Repubblica

Cinque anni più tardi, nel 1955, partecipò all’atto di fondazione del Partito Radicale e, nel medesimo anno, nacque il settimanale “L’Espresso”, di cui Scalfari divenne direttore amministrativo. Alcuni anni dopo, nel 1963 giunse anche l’incarico di direttore responsabile. Il settimanale arrivò in cinque anni a superare il milione di copie vendute.

Correva l’anno 1967 quando Scalfari pubblicò insieme a Lino Jannuzzi, l’inchiesta sul SIFAR, evidenziando il tentativo di un colpo di Stato denominato “piano Solo”. Il generale De Lorenzo, chiamato in causa, querelò i due giornalisti che furono con condannati rispettivamente a 15 e a 14 mesi di carcere, nonostante la richiesta di assoluzione presentata dall’allora Pubblico Ministero Vittorio Occorsio, che era riuscito a leggere gli incartamenti integrali prima che il Governo ponesse il segreto di Stato.

Il 1976 fu l’anno della nascita de “La Repubblica”. Eugenio Scalfari aveva già provato, senza successo, a fondare un quotidiano assieme ad un altro Gigante del Giornalismo, Indro Montanelli; questi, però, aveva respinto la proposta definendola piuttosto azzardata e chissà, probabilmente anche la differente ideologia politica non soffiò a favore di tale idea. Il nuovo quotidiano debuttò nelle edicole il 14 gennaio. L’operazione diede il via ad una nuova pagina del giornalismo italiano. Il quotidiano romano, sotto la sua direzione, fece in pochissimi anni una scalata imponente, diventando per lungo tempo il principale giornale nazionale per tiratura.

Negli anni ’80 vi fu un consolidamento della posizione del Direttore, dovuta anche all’ingresso di Carlo De Benedetti ed un tentativo, finito nel nulla, da parte del giovane imprenditore Silvio Berlusconi di acquisire il giornale, forte della scalata del titolo Arnoldo Mondadori Editore, finito con il “lodo Mondadori”.

A livello politico la figura di Scalfari ebbe ruoli di primo piano nelle vicende legate alle evoluzioni tanto nazionali quanto internazionali. “La Repubblica” aprì il filone investigativo sul caso Enimont, destinato poi ad essere oggetto di indagine da parte di “Mani pulite” un paio di anni più tardi.

Su Craxi, uno dei protagonisti del decennio ’80 e primi anni ’90, il Giornalista si pose in maniera contraria, considerandolo l’archetipo della questione morale contro cui si scagliava l’anima della sinistra rappresentata da Enrico Berlinguer.

Su quest’ultimo, invece, ebbe parole di elogio in merito alla distanza presa dall’Unione Sovietica, in occasione del golpe avvenuto in Polonia.

Il 27 gennaio 1994 Scalfari intraprese la sua battaglia contro Silvio Berlusconi, destinata a durare un ventennio.

Il 1996 segnò, nella vita del Direttore, un importante momento decisivo: l’abbandono della Direzione della sua creatura “La Repubblica”. Era all’apice della sua carriera. Non scomparve dalla testata, continuando a svolgere il ruolo di editorialista dell’edizione domenicale.

I suoi editoriali, noti per la lunghezza, vennero soprannominati “la messa cantata della domenica”.

Curò, inoltre, una rubrica su “L’Espresso”, denominata “Il vetro soffiato” ed il 6 luglio del 2007, sul “Venerdì di Repubblica” annunciò di voler abbandonare la sua storica rubrica “Scalfari risponde”, congedandosi dai lettori e ringraziandoli per l’affetto ricevuto. Il suo posto venne preso da Michele Serra.

Nel maggio 2008 fu il primo a percepire la potenziale discesa in politica di Beppe Grillo; nel 2018, interruppe definitivamente i rapporti col suo ex editore De Benedetti e nell’aprile del 2019 preconizzò una possibile, futura alleanza d’intesa fra i due Mattei: Renzi e Salvini.

Ci lascia, dunque, l’ultima grande firma del nostro Giornalismo. Al di là delle personali convinzioni politiche, è indubbio che la figura di Eugenio Scalfari sia stata, al pari dei nomi riportati ad inizio articolo, la rappresentazione di uno Stile che solo apparentemente sembra essere superato.

Oggi tutto si muove su piattaforme e velocità inconcepibili per i decenni poc’anzi descritti ma, sicuramente, quanto abbiamo è frutto di un’impostazione che non dovrebbe mai essere dimenticata, specialmente dalle nuove generazioni che, da questi Maestri, avrebbero infinite cose da imparare.

Stefano Boeris

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