Il blitz di Hamas su Gaza torna a seminare il terrore in Israele

È stata ribattezzata la “Pearl Harbor” mediorientale, ma di sorprendente in questa storia c’è solo la rapidità con cui Hamas ha colpito nuovamente Israele. A cinquant’anni esatti dalla Guerra del Kippur, l’odio antisemita dei palestinesi torna ad incendiare Gaza, seminando caos e distruzione al confine con Israele. L’attacco è partito sabato, alle prime luci dell’alba, dal nord della striscia e ha visto l’impiego massiccio di miliziani, missili e droni che hanno bersagliato simultaneamente le zone nevralgiche del Paese.

I terroristi, dopo aver neutralizzato i servizi di sicurezza di guardia alla frontiera, si sono poi recati nelle case, saccheggiandole e catturando ostaggi. Attualmente sarebbero oltre quattrocento i morti fra le file israeliane, a cui si aggiungono i circa centocinquanta ostaggi caduti in mano palestinese.

Fonte: La Stampa

Costoro è altamente probabile che possano essere usati come scudi umani per rallentare l’imminente risposta di Tel Aviv, secondo uno schema già impiegato da Boko Haram in Somalia. Hamas, a tal riguardo, ha già detto di essere pronta a sostenere una lunga guerra con lo Stato ebraico, reo di decenni di vessazioni ai danni del popolo palestinese.

Fonte: Oggi

Parole, quest’ultime, riprese dallo stesso premier israeliano Netanyahu, il quale non ha escluso una nuova guerra con gli arabi. Invero, per scongiurare un nuovo conflitto ai margini dell’Europa, si è già mossa la Comunità internazionale. Gli Stati Uniti hanno dichiarato di essere pronti a fornire armi e sostegno militare a Israele per difendersi, pur non disapprovando la ricerca di una soluzione diplomatica.

Sulla stessa linea si è collocata, pur con alcuni distinguo, l’Unione Europea, che al momento si è resa disponibile a fornire esclusivamente assistenza umanitaria ai profughi in fuga dal conflitto.

Più sfumata, invece, è parsa la posizione della Russia e della Cina. In ossequio a quanto consacrato dagli Accordi di Oslo, le due superpotenze orientali hanno ribadito la necessità di lavorare per un’efficace de-escalation, che conduca alla creazione di due Stati in un unico territorio. Tuttavia, questa ipotesi è difficilmente applicabile, perché è proprio Hamas a non volerla. Essendo un’organizzazione terroristica, essa esclude espressamente la possibilità di giungere a un mutuo riconoscimento fra Palestina e Israele.

Al pari di Al Qaeda e dell’Isis, il suo fine ultimo è quello di annientare il popolo ebraico, cancellandolo dalla faccia della Terra. In questo, essa trova l’apporto solidale di numerosi gruppi estremisti islamici (come Hezbollah nel vicino Libano) e di alcune dittature di matrice sciita.

In primis dell’Iran, il quale fin dai primi vagiti del regime degli Ayatollah non ha mai nascosto la propria volontà di estirpare per sempre “il cancro sionista” dalle terre di Maometto.

L’idea di affratellare tutte le razze islamiche, a ben vedere, sembra essere il vero casus belli che ha fatto detonare questo inedito conflitto.

È molto verosimile, infatti, che l’estensione degli Accordi di Abramo all’Arabia Saudita abbia fornito il pretesto ad Hamas per provare a destabilizzare ulteriormente il già precario quadro mediorientale. Ed è altresì plausibile che, proprio come avvenuto durante la Guerra del Kippur, si possa saldare un insolito “asse del male” fra nemici del popolo ebraico.

I movimenti di queste ore al confine fra Libano e Cisgiordania sono indicativi di tale volontà e di come questo evento ci abbia tutti colti impreparati. Specialmente, per ciò che concerne le conseguenze economiche connesse a questo nuovo fronte di guerra.

All’indomani dello scoppio del conflitto, infatti, si è assistito a un’impennata del prezzo del gas sui principali listini europei. Il rischio per gli investitori è che le ostilità si estendano al di là dell’enclave palestinese, aggravando l’alta inflazione che affligge i nostri mercati fin dall’inizio della crisi ucraina. Il che sarebbe una vera iattura, visto e considerato che attualmente circa un terzo della nostra provvista di gas proviene dal Medio Oriente e, in particolar modo, dall’Iran.

Gli Stati Uniti, al riguardo, hanno già avvertito Teheran di non intervenire nel conflitto in corso, pena nuove sanzioni sulla sua già provata economia. In realtà, qualora dovesse ripetersi uno scenario simile a quello del 1973, difficilmente oggi riusciremmo a sopravvivere a un duro e prolungato embargo petrolifero. Ecco, perché, l’attenzione di tutte le cancellerie occidentali è rivolta a scongiurare siffatta ipotesi, sensibilizzando i partner operanti nella regione.

Fonte: la Repubblica

In tal senso, ancora una volta, la crisi potrebbe essere risolta all’interno del mondo arabo. Proprio in queste ore, infatti, è valutata positivamente la mediazione di Egitto e Turchia per spegnere l’incendio divampato in Terra Santa.

Una terra da sempre vittima dell’odio religioso, ma verso cui siamo, come europei, direttamente responsabili, in virtù delle radici cristiane che ci legano a questi luoghi di inveterato tormento.

Gianmarco Pucci

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *