Vediamo cosa ne è stato dell’annunciato “new deal” varato da Biden negli scorsi mesi
Circa un anno e mezzo fa, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha firmato, tramutandola in legge, la controversa “Infrastructure Bill”, un ingente provvedimento che prevedeva l’implementazione di progetti legati alle infrastrutture per un valore totale di 1.2 trilioni di dollari.
Una proposta tanto dibattuta a livello politico – sia all’interno degli stessi Democratici sia sul fronte Repubblicano – quanto necessaria per gli USA, data la C- assegnata alle infrastrutture americane dalla American Society of Civil Engineers. Un pessimo voto che mira a comunicare lo stato “rischioso” in cui versano le strade, impianti e mezzi americani.
Prima di approfondire il contenuto della legge, vale la pena ricordare il processo di finanziamento dei lavori pubblici: può variare in base al progetto, ma generalmente una parte viene coperta dal budget federale, controllato dal Congresso, mentre il resto è saldato dal singolo stato o distretto.
Ciò spiega, parzialmente, la condizione delle infrastrutture d’oltreoceano, specialmente se si pensa che negli ultimi anni solo ¼ del denaro necessario è stato elargito da Washington lasciando il saldo alle istituzioni locali che non sono state in grado di sostenere gli ingenti costi necessari per manutenzione e aggiornamento. Oltretutto, all’interno dei paesi del G20, gli USA si collocano al penultimo posto in termini di spesa annua per le infrastrutture rispetto al PIL (1.5%), al contrario della Cina che guarda tutti dall’alto del suo 5%.
Un nuovo New Deal, dunque, che, nella mente del Presidente, riesca a generare nuovi posti di lavoro, ridare linfa vitale al settore nonché rendere nuovamente efficiente e competitiva la compagine americana. Nello specifico, 65 miliardi di $ per migliorare e diffondere in maniera più capillare la banda larga e altrettanti finanzieranno lo svecchiamento del servizio ferroviario di Amtrak.
D’altro canto, si stima che ogni due minuti ci sia una perdita negli US, tale per cui 22 miliardi di litri d’acqua sono sprecati quotidianamente: contro questa mancanza e per garantire la potabilità dell’acqua sono stati previsti 55 miliardi.
Fonte: Il Riformista
Proseguendo, i cittadini americani sempre più di frequente vanno incontro a blackout e perdite di energia che danneggiano l’economia per miliardi ogni anno, si spera che i 65 miliardi di $ mitighino il problema. Infine, da sottolineare come solo il 5% dei pendolari statunitensi usi i trasporti pubblici per andare al lavoro, quindi la maggioranza della popolazione attraversa quotidianamente quelle stesse strade e autostrade di cui la Casa Bianca stima che 173000 miglia insieme a 45000 ponti siano in “poor conditions”.
Ecco, pertanto, alcuni dei punti chiave del titanico dossier da 2700 pagine approvato la scorsa settimana dalla Camera grazie al voto di 13 Repubblicani che, unendosi ai voti dei democratici, hanno reso possibile la promulgazione della legge per 228 voti a 206 dopo che già ad agosto era stata approvata in Senato grazie a 19 voti del Gop.
Uno smacco inaccettabile per la destra, tanto che alcuni dei rappresentanti più estremi, come l’on. Boebert e l’ex membro dello staff di Trump Meadows avevano all’epoca pubblicamente chiesto delle ritorsioni intrapartitiche verso questi “traditori”, già oggetto di minacce da ogni dove. Un “tradimento”, tuttavia, fruttuoso per la nazione: sebbene si tratti di un ridimensionamento rispetto all’iniziale proposta del Presidente da 2.2 trilioni di $, dovuto alle classiche schermaglie parlamentari, è vero che i ritorni degli investimenti per ammodernare le infrastrutture sono tra i più redditizi, sia storicamente sia basandoci su alcuni studi recenti.
Un’analisi condotta da Oxera per ICE nel 2020 ha stimato che il valore dei moltiplicatori nel settore delle infrastrutture è compreso tra 1.5 e 2.7: fuor di tecnicismi, per ogni euro investito, il miglioramento ottenuto ne genererà circa due in più.
Citando, infine, un articolo di Carlo Altomonte per ISPI del 2018, “la presenza di un porto profondo ogni mille chilometri di costa induce in media un aumento del commercio internazionale nel paese considerato pari a circa il 17%. E un punto di export in più genera in media 0,3-0,5 punti di PIL pro-capite.”
Nonostante il ventunesimo secolo veda la tangibile crescita dell’industria dei servizi e il valore aggiunto sia sempre più associato a beni dematerializzati, appare chiara la necessità di continuare a perseguire un’innovazione anche nel campo dei settori “tradizionali”, come peraltro testimoniato dagli obiettivi dei Piani di ripresa varati anche in Europa.
Ben vengano, concludendo, piani ambiziosi e concreti che pongano le basi per lo sviluppo futuro, con buona pace dei Trumpiani. A distanza di molti mesi dal varo della legge occorre però rimarcare che, per lo meno stando alle poche verifiche già effettuate, solo una parte di quei fondi stanziati sono stati effettivamente impiegati per i progetti a cui erano destinati.
Alberto Fioretti