Alcuni rilievi critici sulla riforma costituzionale voluta dal Governo

È stato l’argomento che fin dall’inizio di questa legislatura ha tenuto banco nelle discussioni fra i gruppi parlamentari. Nondimeno, essa è tuttora ritenuto obiettivo primario del governo Meloni, tanto che la premier l’ha già definita “la madre di tutte le riforme”.

Stiamo parlando della riforma costituzionale che dovrebbe introdurre il premierato in Italia, nonché inaugurare una vera e propria rivoluzione istituzionale. In tal senso, il 2024 dovrebbe essere l’annus domini da cui dovrebbe partire la tanto vaticinata “terza repubblica” presidenziale.

Fonte: ACLI Milano

Invero, questa legge costituzionale, che pochi giorni fa è sbarcata in Senato per l’esame degli emendamenti, non si palesa diversamente dalle altre proposte di modifica della Costituzione susseguitesi negli anni. Ancora una volta, infatti, assistiamo ai capricci dell’esecutivo di turno che, per pura ambizione personale, anela a rafforzare le proprie prerogative, sfasciando l’impianto costituzionale con leggi dalla dubbia utilità pratica.

È stato così con la legge di riforma del Senato, che un referendum del 2016 ha bocciato, provocando le dimissioni di Matteo Renzi e del suo governo. È stato così con la legge sul taglio dei parlamentari che, una volta approvata dagli italiani, ha finito per defenestrare il suo ispiratore, ovvero il plenipotenziario del M5S Luigi Di Maio.

Adesso, in ossequio a un vecchio cavallo di battaglia della destra, arriva questa riforma, che più che innovare sembra voler fornire una comoda via di fuga al governo in caso di ritorno alle urne. L’iter per l’approvazione della legge è, infatti, ancora agli albori e denso di incognite. Per non parlare dei tempi di approvazione, che si prevedono abbastanza lunghi.  Dopo il voto sugli emendamenti dei gruppi parlamentari in commissione, il ddl Casellati, che il CDM ha deliberato all’unanimità lo scorso 3 novembre, dovrà essere votato dal Senato, il quale dovrà approvarlo in prima lettura prima di rinviarlo alla Camera.

In tal senso, la procedura è delineata dall’articolo 138, che disciplina minuziosamente il processo di revisione e modifica della Costituzione. Per il varo definitivo è necessario che entrambe le assemblee si pronuncino sul testo definitivo con due deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi l’una dall’altra. Se nella seconda votazione, la legge è approvata con i due terzi dei componenti di ciascuna Camera, non si da luogo a referendum. In caso contrario, l’ultima parola spetterà agli elettori e non è detto che il risultato corrisponda alle aspettative del governo.

Occorre ricordare, infatti, che negli ultimi vent’anni si sono votati ben cinque referendum costituzionali e che solo due (quello sulla riforma del Titolo V e sulla riduzione dei seggi) hanno ottenuto responso positivo da parte dei cittadini. Nondimeno, un referendum volto a introdurre il premierato era già stato proposto nel 2006 dal governo Berlusconi e, proprio in quel frangente, fu respinto dalla maggioranza popolare. Anche allora, l’esecutivo cercò di coniugare la necessità di favorire la stabilità dei governi con l’esigenza di decentramento amministrativo a vantaggio delle autonomie locali (la cosiddetta devolution).

Tale obiettivo, a quanto pare, è tornato al centro dell’azione di governo, seppur con alcune differenze. Successivamente all’approvazione del ddl sull’autonomia differenziata, l’esecutivo Meloni ha ripreso la legge Casellati, cercando di modificare in chiave migliorativa il progetto originario.

Dall’antica idea di trasformare l’Italia in una repubblica presidenziale si è passati alla necessità di rafforzare i poteri del primo ministro a discapito di quelli del Parlamento e del Presidente della Repubblica. Nel testo di legge, che si compone di cinque articoli, si prospetta che il Capo dello Stato non potrà più nominare i senatori a vita, potere residuale di ascendenza regia e che nella narrazione meloniana sono ormai frutto di scelte ideologiche stabilente orientate a sinistra.

Fonte: L’agone

Viene eliso il divieto per il Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere durante l’ultimo semestre del suo mandato, a cagione del depauperamento delle già esigue prerogative presidenziali. Viene meno, in ragione anche dell’elevato premio di maggioranza attribuito a chi vince le elezioni, la possibilità per il Capo dello Stato di scegliere un premier diverso, in caso di mancata fiducia da parte delle Camere.

Per non parlare dell’ampio potere di direttiva attribuito al Presidente del Consiglio, che cesserebbe di essere un primus inter pares e che potrebbe essere sostituito solo da un membro del proprio partito, in casi peraltro eccezionali e imprevedibili (morte, impedimento fisico, dimissioni volontarie). Tale norma è stata introdotta, a detta di Giorgia Meloni, per evitare ribaltoni, ma sembra più un tentativo maldestro di mettere una toppa a una legge che non innova il nostro ordinamento, ma al contrario finisce per alterare il normale rapporto fra poteri dello Stato.

Illuminante, a tal riguardo sono le parole di Marcello Pera, filosofo ed ex Presidente del Senato, che da convito presidenzialista ha già bocciato la riforma, ritenendola “un pasticcio finito in un buco nero”. Un giudizio che da solo esprime tutti i dubbi sul percorso intrapreso da questo governo, smascherandone le contraddizioni e frustrandone la volontà di restare saldamente in sella fino alla scadenza naturale della legislatura.

Gianmarco Pucci

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