Sorrentino dichiara apertamente che questa sua pellicola è la più personale, la più autobiografica, ma anche la più dolorosa

La prima immagine è il golfo di Napoli. Dall’alto appare per quello che è: un posto bellissimo. Man mano che la macchina da ripresa si avvicina la foto si fa più chiara, ma poi scopriamo che non è una foto, uno, dieci, venti motoscafi solcano il mare veloci lasciando una scia bianca alle loro spalle. Sono tutti blu, di un blu scuro, inteso, anche i vetri sono blu. Si confondono con il blu del mare, i motoscafi dei contrabbandieri di sigarette che di notte escono veloci dalle acque territoriali, caricano la loro merce da una nave appoggio e la portano in città.

Blu, dunque, perché il blu di notte rende invisibili. L’incipit dell’ultimo film di Sorrentino: “E’ stata la mano di Dio”, è questo, una specie di timbro su una città bellissima, ma non innocente, in cui il contrabbando di sigarette, fra l’altro un crimine che negli anni Ottanta, epoca in cui si svolge il film, era piuttosto tollerato perché evitava che venissero perpetrati crimini ben più gravi, era il compromesso tra la bellezza e il malaffare. Il protagonista di questa storia è Fabietto Schisa che vive la sua adolescenza spensierata accanto ai genitori Saverio e Maria e ai fratelli Marchino e Daniela.

È una Napoli, borghese e allegra, proprio come la famiglia di Fabietto, un po’ sconclusionata e sui generis, pazzerella e follemente tifosa di calcio. E già, proprio di calcio, perché “La mano di Dio” del titolo è quella famosa di Maradona. L’anno di cui si parla coincide con l’arrivo del calciatore argentino nella città e la pellicola trasferisce bene allo spettatore la suspance dell’attesa del campione, che sembra non arrivare mai. Smentite, conferme e ancora smentite, poi improvvisamente eccolo, il fenomeno compare.

Fabietto consuma le sue giornate tra lo studio e l’amore per il calcio e in quella sua famiglia, dove accade di tutto; la zia Patrizia, bella e spregiudicata, sempre con la speranza di riuscire ad aver un figlio, ma sempre in lotta con il marito, la nonna scontrosa e villana che risponde sempre in modo aggressivo qualsiasi cosa le venga proposta, sua mamma Maria una donna spensierata e divertente che lo adora, il fratello Marchino che vorrebbe fare cinema e partecipa a un provino per Fellini e infine lui, Saverio il papà, un uomo dedito al lavoro e alla famiglia, impiegato di banca, sempre con la battuta pronta e il sorriso sulle labbra.

Ma, come si dice, non è tutto oro. E allora veniamo a scoprire che la zia, bella e spregiudicata, ha la tendenza a prostituirsi e per questo viene picchiata dal marito, tanto che alla fine, per liberarsi di questo giogo, fingerà di essere pazza e finirà in una casa di cura per malati di mente; Maria scopre che Saverio, marito premuroso e affettuoso, la tradisce con una collega d’ufficio. Sarà costretta a cacciarlo di casa, salvo poi riprenderlo appena le sbollisce la rabbia. In tutto questo il Napoli vince lo scudetto e Maradona al Mondiale segna un gol di mano, la mano di Dio dirà, come a voler sancire la supremazia della classe rispetto al gioco puro e semplice del calcio. Improvvisamente però tutto cambia. Saverio per far felice Maria acquista una casa in montagna e parte con lei per il week end, dovrebbe andare anche Fabietto, ma c’è la partita e lui non si vuole perdere un solo attimo del campione. La notte stessa entrambi i genitori muoino nella nuova casa, soffocati dal monossido di carbonio. I tre figli si trovano orfani, soli in una città, un mondo che fino a quel momento, pur con le sue amarezze e i suoi squilibri, ma anche con i suoi momenti di gioia, era uno spazio di vita che non tornerà più. Un passaggio violento e repentino dall’adolescenza al diventare adulti. Fabietto ore è Fabio.

Una sera, in galleria a Napoli, vede il set cinematografico di un film del regista Antonio Capuano e ha quasi una folgorazione: è il cinema che lo interessa, la finzione come mezzo per fuggire da una realtà che ormai gli è diventata insopportabile. Decide quindi di andare a Roma per studiare cinema, alla ricerca della vita nuova, dell’equilibrio dopo lo sconquasso. Prima di partire Fabio si reca a trovare la zia, la quale gli rivela che prima di essere internata, aveva incontrato il Munaciello, uno spiritello buono e leggendario del folclore napoletano, e di essere rimasta finalmente incinta. Le percosse del marito però l’avevano fatta abortire, ora però ha finalmente trovato la pace.  Mentre è in treno verso Roma, in una stazione desolata Fabietto vede apparire un Munaciello, che lo saluta con un sorriso benevolo.

È la fine di un mondo e l’inizio di un altro, forse anche a lui, come alla zia, il Munaciello darà quello che cerca. Il film finisce così con le immagini del treno che si allontana portando con sé Fabio.

Sorrentino dichiara apertamente che questa sua pellicola è la più personale, la più autobiografica, ma anche la più dolorosa. Quasi una lunga seduta psicoanalitica dove ripercorre senza pudore tratti belli e drammatici della sua adolescenza. Ancora una volta c’è molto Fellini. Sostituire la realta con il cinema. Fellini, anche quando non ce n’era bisogno ha sempre ricostruito tutte le scenografie, nel suo cinema nulla è come è, ma come lo immagina, come lo sogna. Magari sono solo dettagli, ma si allontanano dal concreto, lo rendono personale, unico.

Sorrentino è il Moraldo de “I vitelloni” che scivola in treno verso Roma, è Jep Gambardella de “La grande bellezza”. A Napoli, in galleria su quel set del regista Antonio Capuano Fabio aveva visto un uomo sospeso a testa in giù, un equilibrista, un’immagine che ricorda il circo, gli acrobati, l’illusione che si possa volare appesi a un filo, resistere alla forza di gravità, farla propria. Un sogno, ma anche un’angoscia, come l’immagine uguale e forse simbolo di Titta ne “Le conseguenze dell’amore”, (secondo film di Sorrentino), agganciato a testa in giù in attesa che la morte lo sommerga nel cemento.   

Lello Mingione

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